domenica 26 aprile 2015

La mano del diavolo nel Macbeth di Chiara Guidi

“Macbeth”, “Macbeth”, “Macbeth” sussurrano le tre Norne mentre percorrono la ripida scalinata di un Tau completamente avvolto dalla nebbia dirigendosi consapevoli e bramose verso il palcoscenico per compierne il rito/studio. Sanno tutti ciò che lo aspetta: “Diventerai RE”. Il “Macbeth su Macbeth, su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra” di Chiara Guidi - in scena al “Teatro grande” dell’Unical lo scorso mercoledì - si costruisce ogni volta sulla scena, hic et nunc, come se fosse la prima.
Le scene vengono assemblate da azioni in cui la parola diventa significante e il suono significato, snodandosi in continui rimandi esoterici che sembrano moltiplicarsi nell’animo di chi l’ascolta. Nessuno può uscirne illeso, l’attore quanto chi lo osserva. Inquiete le streghe (sulla scena Chiara Guidi, Anna Lidia Molina, Agnese Scotti) cominciano a cercare con vanità fra il terreno di Scozia o nei substrati dell’anima, segnandone le tracce in croci fatte di scotch di carta, una motivazione necessaria e aberrante per una tragedia già predetta e nello spettacolo della  Guidi e nell’opera di Shakespeare.
“Nulla è per me tranne ciò che non è”, come se si trattasse solo di un inciampo,  voglia irrefrenabile di potere,  è il punto di partenza di una ricerca pluriennale che sviscera il testo del drammaturgo inglese materializzandosi in un libro che sputa le sue stesse pagine. È il rifiuto della consapevolezza, la coscienza che parla, che ci parla, nelle sue continue contraddizioni che superano il dualismo finendo per identificarsi nella stessa medesima cosa, come il brutto e il bello (“il brutto è il bello”), il bene e il male. La trinità come Satana, la Triplice Ecate, tre le Furie, tre i Re, così tre volte si ripete il Macbeth della Sanzio, con la mano sinistra, quella del diavolo, tra le croci di nastro adesivo, l’enorme fardello fatto da una trave di legno, la fede per una corona e un trono minimale in ferro placcato oro. 
L’iconoclastia di una singolare poetica, quella della Socìetas, che nel dramma ne rintraccia i simbolismi accuratamente consultati dal “racconto dell’idiota”  mescendo insieme le superstizioni greche e romane a quelle del paese delle Streghe con i loro gattacci, mentre i rituali magici ripudiano il mondo fisico esaltando quanto ha di più nero e odioso il mondo dell’inconscio. Una sola parola può racchiuderne probabilmente l’intero significato dell’opera: ambizione, quella che acceca le pupille. “E più ci credi e più ci pensi. Finirai con il volerlo a tutti i costi” dice una delle tre protagoniste che ora non sono più tre streghe, ma un’unica e tormentata mente. 
In scena entra il violoncello di Francesco Guerri, sul palcoscenico fino alla fine col suo suono reiterante, si posiziona  in parallelo al pugnale sospeso su un filo, sembrano oscillare insieme, archetto e lama, in un'unica danza sfiancante, in un tenebroso gioco di tele occultatrici.  Nel buio neutro della scena la luce ora penetra solo da una quinta, una voce fuori campo (“chi è la?”) gela il sangue tra i mormorii degli insetti minutissimi e l’ululo del gufo - seducono e opprimono i suoni creati da Giuseppe Ielasi - nel momento in cui il regicidio si compie, è il campo onirico della memoria che perde il sonno, una memoria che dal suolo si erge maestosa e mostruosa al centro della scena, come uno dei fantocci di Alfred Jarry. Nelle tenebre di una coscienza sporca di sangue d’oro solo due sono gli sfondi bianchi, una porta da cui sbuca il braccio della Guidi che insistentemente picchia - si tratta di uno dei chiari richiami alla trama shakespeariana (Atto II, scena III) - per poi macchiarsi di feccia  e il fondale in pvc di un finale che mostra gli unici colori  tenui della pièce, mentre il violoncello dall’arco infuocato suona, nel proscenio, il corpo di Lady Macbeth di Chiara Guidi finalmente dorme, nella morte. 
Il Macbeth della Socìetas è pura allucinazione che realizza l’esperienza magica e liberatoria di cui Artaud teorizzava, a dimostrarlo il lungo ed estasiato plauso del Tau.  

Valeria Bonacci

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