giovedì 19 febbraio 2009

"La fine del capitalismo?" di Andrea Fumagalli


"Is this the end of capitalism?", si domanda l’inserto di The Guardian dedicato alla crisi finanziaria di questi giorni. Spunta lo spettro del ’29, si propone il tema dell’instabilità strutturale del capitalismo contemporaneo. Un’ instabilità (crunch time) che, appunto, fa balenare l’idea che il mondo si trovi di fronte a una crisi sistemica irreversibile. In effetti, alcuni segnali potrebbero confermare una simile ipotesi. Proviamo ad analizzarli. In primo luogo, si tratta di una delle crisi finanziarie più lunghe della storia: cominciata nell’agosto del 2007, non terminerà tra breve. Il contesto ciclico vede fasi espansive della borsa non più lunghe di tre anni, un intervallo temporale anomalo che potrebbe far immaginare un ciclo depressivo di poco inferiore al ciclo espansivo. Una crisi, dunque, che non può essere definita congiunturale, bensì strutturale. Dato reso evidente dal fatto che non si tratta di una crisi dovuta a carenza di liquidità istituzionale da sovraproduzione (come avvenne nel ’29), bensì a insolvenza. In secondo luogo, fattore ancora più importante, la crisi nasce e si sviluppa all’interno di quello che è il cuore del capitalismo cognitivo contemporaneo. Non riguarda un settore marginale, bensì il luogo dove si materializzano i profitti e si decidono le strategie di finanziamento dell’accumulazione. La riduzione del valore dei titoli, infatti, non colpisce solo gli intermediari finanziari, ma ha effetti pervasivi anche sulla contabilità delle holding multinazionali, sulla quota di reddito da lavoro differito e non differito che dipende dalle borse, sui livelli occupazionali, sulla possibilità di assicurazione privata delle istanze di vita (sanità e istruzione, ad esempio) all’ interno dei modelli di workfare anglosassoni (e non solo). Nel frattempo, la fase recessiva dell’economia reale è già cominciata.

Tuttavia, non crediamo che lo sbocco di tale crisi possa essere avvisaglia della fine del sistema capitalistico. Oggi esiste un coordinamento delle banche centrali principali (Usa, Europa e Giappone), che operano alle dipendenze dei mercati finanziari con lo scopo di iniettare liquidità per attutire l’elevata distruzione di valore causata dal ribasso dei titoli. La politica monetaria svolge, così, da più di un lustro, il ruolo di ammortizzatore finanziario nelle situazione di crisi e la creazione ex-nihilo di moneta per 140 miliardi di dollari in due giorni ne è la dimostrazione. Tuttavia, tale funzione della politica monetaria non può impedire lo scoppio delle crisi, in quanto, avendo perso la propria autonomia d’intervento (alla faccia della tanto sbandierata autonomia delle Banche Centrali tanto caro ai nostrani economisti mainstream), le Banche Centrali possono intervenire solo ex post. E, insieme all’intervento statale, possono intervenire solo sulla base del vecchio adagio “socializzazione delle perdite, privatizzazione dei profitti” (Northern Rock in Gran Bretagna, Lehmann Brothers in Usa). Una politica che nulla ha a che vedere con il ritorno del capitalismo di stato, auspicato dai nostalgici dello stato-nazione. Occorre inoltre considerare che, almeno fino a questo momento, la crisi finanziaria ha avuto effetti relativamente minori sulle economie dell’estremo oriente (Cina e India) e del Sud America, a differenza di quanto era successo nel 1997, quando la crisi valutaria in Thailandia si era irradiata soprattutto in Russia, Estremo Oriente e Sud America. Gli elevati avanzi commerciali e il surplus di liquidità esistenti in queste aree, pur in presenza di un rallentamento dell’economia reale, compensa in modo efficiente (almeno finora) il propagarsi dell’ instabilità finanziaria dei mercati americani e europei, costituendo una sorta di barriera. Siamo insomma di fronte alla crisi (crediamo definitiva) dell’egemonia finanziaria Usa. Il centro dei mercati finanziari sarà costretto a dislocarsi sempre più a Est e a Sud, come già è accaduto con la produzione. E’ necessario ricordare che la crisi attuale è tutta interna al sistema capitalistico, e ciò è un elemento di analogia con il ’29. Si potrà discutere a lungo sulle cause, ma sicuramente essa non trae origine dai conflitti e dalle lotte delle classi sociali e degli stati più poveri, così come avvenuto negli anni ’70. In quanto nata all’interno del sistema capitalistico stesso, questa crisi rappresenta cioè più un movimento di aggiustamento del nuovo paradigma del capitalismo cognitivo piuttosto che l’espressione del suo tramonto. Essa è frutto dall’incapacità delle gerarchie di mercato di risolvere le contraddizioni strutturali di un’accumulazione trainata dalla finanza. E’ specchio del trade-off temporale tra attività speculativa di brevissimo termine e la necessità di tempi lunghi per lo sviluppo della produzione immateriale e cognitiva fondata sulla conoscenza. Ad esso si aggiunge l’incertezza relativa alla struttura proprietaria relativa ai diritti di proprietà intellettuali, stretti tra pubblico e privato, ma non in grado di tradursi, a tutti gli effetti, in produzione “comune” (quale è la conoscenza). Ultima ma non meno importante, va segnalata la distribuzione del reddito che derivando dagli effetti ricchezza dei mercati finanziari amplia in modo iniquo i differenziali di reddito, a danno della stabilità della domanda e dell’export. In questo senso, la crisi finanziaria può risultare potenzialmente salutare sul versante della ripresa delle lotte e dei conflitti. Essa, infatti, evidenzia in modo ineluttabile che non vi è più spazio per una politica riformista in grado di “cavalcare” il mercato e la finanza. Consapevolezza auspicabile, addirittura irrimandabile, insieme alla necessità di dotarsi di una cassetta degli attrezzi e di strumenti di conflitto adeguati alle novità poste dalla crisi finanziaria e dall’attuale composizione del lavoro vivo. Una nuova fase capitalistica è avviata e, come sempre avviene, sono proprio i fattori critici a metterlo in luce. E’ possibile perciò, come ci ha insegnato il passato, che il nuovo ciclo capitalistico verrà seguito da una nuova stagione di lotta e di conflitto, anche se non nell’immediato. Al "luglio, agosto, settembre nero” – come cantavano gli Area in “Arbeit macht frei” - segue sempre una nuova primavera (tratto dalla rivista Posse).

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