lunedì 20 aprile 2009
Juve - Inter, scende in campo un "nuovo" razzismo
Ancora noi. Ancora l’Italia calcistica che esce dal coro, dal coro dello sport, dell’agonismo, della cultura, della globalizzazione, della civiltà, per introdursi in un altro tunnel pieno di vergogna tutto made in Italy. Si, perché se alla vigilia tutti vedevano il derby d’Italia come una delle più alte espressioni sportive che il calcio può regalare ai propri tifosi, al mondo degli sportivi in generale, quella che è da sempre una gara storica, è diventata la partita che passerà alla storia.
Il tanto amato e proclamato Made in Italy (calcistico), si macchia di un fatto nuovo, dopo Calciopoli, l’omicidio del commissario Raciti, l’omicidio del giovane tifoso laziale Gabriele Sandri, solo per restare agli ultimi vergognosi episodi di cronaca, siamo ritornati al razzismo, un razzismo nuovo però, perché il giocatore coinvolto è a tutti gli effetti un giocatore italiano.
Durante tutto il corso della partita Juve-Inter, il ragazzo di colore che risponde al nome di Mario Balotelli è stato insultato, massacrato, offeso e deriso per il suo colore di pelle, un’azione organizzata, mirata, non solo per spostare gli equilibri tattici, ma soprattutto quelli mentali e umani.
Perché urlare che non ci sono italiani di colore, equivale a dire che Camoranesi è argentino, che Amauri dovrebbe guardare la maglia della nostra Nazionale con il cannocchiale, (visto che di italiano non ha nemmeno l’unghia del piede), e che in un futuro ormai non troppo lontano, non dovrebbe indossare la maglia della nostra Nazionale.
Alla vigilia di una partita così tutti si aspettano il massimo dello spettacolo, della lealtà, della sportività, l’esempio da seguire insomma, per rispondere se non altro alle realtà europee calcistiche che ci guardano con tanto disprezzo.
E come fare a non dargli ragione?
Lo sport lo fanno le persone, non quelle che vanno in campo, ma quelle che stanno fuori. E’ un processo che nasce dal basso, la cultura dello sport nasce da quello che noi abbiamo dentro, dalla nostra società, dalla nostra famiglia, dai nostri valori e dal nostro grado di civiltà.
Perché se in Inghilterra e in tanti altri paesi europei si può vedere la partita stando a 1 metro dal terreno di gioco senza alcun tipo di barriera, e se in Spagna quando la squadra va male si tirano fuori i fazzoletti bianchi in segno di protesta, da noi il tutto assume sempre toni ridicoli, perché ridicoli siamo noi.
E non ce ne facciamo niente del più bel campionato al mondo,(perché calcisticamente è il migliore) se poi vorremmo tanto emulare quegli episodi di fair-play,che ad esempio abbiamo visto nella partita di Champions tra Chealsea e Liverpool che sono normalissimi, di cui i giornali italiani hanno tanto parlato e che alla vigilia doveva essere l’esempio da seguire, di cui siamo lontani anni luce.
Lo sport è lo specchio dello società, e noi anche questa volta ci siamo specchiati, ci siamo guardati, ma forse non con molta attenzione. Perché guardando in quello specchio il calcio bello, che appassiona e tiene davanti allo schermo la domenica mezza Italia, c’è uno sfondo vuoto, senza nessun valore, senza nessuna regola sociale, senza nessun tipo di cultura. E solo quando saremo capaci di guardarci in quello specchio, di vedere e di conoscere una vera cultura sportiva, potremmo parlare di sport.
Paolo Mercurio
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