Due mesi e mezzo dopo
l'apertura della crisi di governo all'Università della Calabria -
cominciata il 3 ottobre scorso con le dimissioni del prorettore
D'Ignazio, ndr - gli ex sostenitori del rettore Gino Crisci hanno
compiuto la grande prova di forza: l'assemblea convocata ieri per
discutere sul futuro dell'Unical, con la partecipazione di almeno
quattrocento persone, fra studenti, docenti e personale t.a., si è
conclusa con una richiesta ufficiale di dimissioni indirizzata al
Magnifico. Esaurito il balletto solitario di interviste, commenti e
dichiarazioni a mezzo stampa, che ha offerto all'esterno uno
spettacolo indegno di un ateneo, la parola è tornata finalmente nel
suo luogo naturale, all'interno della comunità universitaria, spazio
collettivo non privo di contraddizioni ma proprio per questo
interessante e formativo. Nessuno si è voluto perdere
l'appuntamento. Il lavoro grosso lo ha fatto il Consiglio degli
studenti, in guerra aperta con il prorettore Luigino Filice che non
si decide a sbloccargli i fondi. Ci sono i fuori corso. Ci sono i “precari”, che dopo
anni di contratto, si vedono improvvisamente fuori dai giochi. C'è
il capo ufficio stampa e a due passi la nuova portavoce. C'è il
consigliere d'amministrazione Maggiolini. Impiedi, in fondo a
dominare l'aula, c'è Franco Santolla.
Il dibattito, introdotto
e moderato da Guerino D'Ignazio e Nuccio Ordine, ha toccato
tantissimi punti, senza approfondirli: didattica, ricerca,
residenzialità, Statuto, trasparenza, democrazia. Cinque minuti,
scanditi da un timer sullo schermo, e al microfono si alternano una
ventina di interventi. Il cahier de doleances è lunghissimo. Per
Girolamo Giordano, “stando ai numeri della ricerca, questa
università è destinata alla morte”; per Domenico Tulino “gli
alloggi sono da terzo mondo”; per Raffaele Perrelli “non c'è
agibilità democratica”; per Massimo Migliori “la didattica è
trascurata”; per Nicola Caruso “manca la sicurezza”; per Sergio
Greco “un declino così mai”. La conclusione, per dirla con
Ordine, è che “questo rettore è inadeguato” a gestire la fase e
a risolvere tutti i problemi, o per dirla con D'Ignazio, “questo
modello oligarchico di gestione del potere deve cedere il passo ad un
maggiore pluralismo”.
“Oligarchia” è un
termine che ricorre spesso nella discussione: il governo dei pochi –
“pochissimi, due o tre", sostiene Perrelli - è però l'unica
forma di governo che conosciamo, e non da oggi. D'altronde questi
pochi sono stati eletti democraticamente, o al più nominati (come
nel caso del CdA) seguendo criteri perfettamente legali: “Dove
eravate – chiedono giustamente ai “congiurati” Gianluca Aloi ed
Elisabetta Della Corte – quando veniva scritto il nuovo Statuto,
quando pochi di noi denunciavano la deriva autoritaria di un CdA
nominato e non eletto?” E dove eravate quando si discuteva di
didattica, di ricerca, di residenzialità, di trasparenza, di
democrazia negli organi decisionali, nei consigli di dipartimento, in
Senato, in CdA? Quando proliferavano insegnamenti e corsi di laurea? Quando si assumevano figli e amici? “Dove siete stati durante i quattordici anni di
rettorato Latorre” - ricorda Davide Merando - a cui il Senato ha
pure riconosciuto il titolo di professore emerito? Quando si
modificava lo Statuto per eleggerlo la terza volta? Quando flirtava
con la politica locale – con la “p” minuscola, come direbbe
Walter Nocito? E quando la polizia sgomberava e demoliva i capannoni
autogestiti al Polifunzionale, aggiungiamo noi, dove eravate? Anche qui l'elenco delle domande
potrebbe continuare, ma la risposta sarebbe sempre la stessa: erano
tutti lì, allo stesso posto, a decidere, a guardare, a gestire
potere. Pochi, ma forti del mandato ricevuto. Impegnati a
sopravvivere, ognuno con i suoi pochi, senza pensare mai
all'interesse generale.
Ecco, se c'è stato un
grande assente nell'assemblea di ieri, è stato proprio l'interesse
generale: abbiamo assistito ad una sfilata di capi cosparsi di cenere
per aver votato o meno il rettore in carica, incapaci di fare
veramente autocritica, riluttanti al confronto approfondito e
disinteressati ad un'inversione di rotta. Le proposte non
mancherebbero, come ricorda Marta Petrusewicz, basterebbe guardare
alle nostre radici, quelle di “un'università utopica nata dal
meridionalismo progressista, con pochi studenti, un curriculum
comune, un modello dinuovo residenziale”. Ma non c'è tempo per le
utopie, bisogna approvare la mozione, il futuro può attendere. E la mozione è: dimissioni. Il
massimo che l'assemblea di ieri poteva esprimere.
Daniela Ielasi
Un punto di vista chiaro e da capitalizzare. Il ventaglio delle interpretazioni è ampio e non tutto è ancora definito.
RispondiEliminaNon ho partecipato alla riunione, perchè temevo che fosse velata dall'etichetta di un convegno, ma che di fatto si trasformasse in un'assemblea. Così è stato. Un modo per contarsi. Per me, illudendomi, le parole hanno ancora un senso: un convegno è una cosa, un'assemblea è tutt'altro. Nei convegni si approfondisce. Si entra nei dettagli. Si Discute (se fatti bene, ossia con interventi strutturati). In una'assemblea si fa, legittimamente, altro. Dalla mia prospettiva, vedo, ovunque, molte ombre e poca luce e da quello che leggo, l'incontro di ieri non mi ha aiutato a comprendere meglio le ragioni della turbolenza. Aspetto, tra le altre cose, il prossimo "convegno".
Che bello vedere gli stessi che lo hanno eletto fare la gara a chi grida più forte, Perrelli in testa. Sic transit gloria mundi...
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