Il Teatro Auditorium Unical ha modificato temporaneamente il suo
grembo per l’arrivo della Societas Raffaello Sanzio. Da martedì 14 a giovedì 16
marzo l’allestimento del TAU si è tinto di bianco per ospitare la Societas. Il
palcoscenico si trasforma in un cubo bianco che contiene spettatori e spettacolo. La sola
modalità di fruizione ha un effetto straniante. Trasmette agli spettatori un
senso di imminenza: si insinua la certezza che qualcosa sta per avvenire! Molti
spettatori non sono a loro agio.
In scena due attori entrano preceduti da un tonfo sordo che desta la
nostra attenzione. I due preparano la scena: su un piedistallo campeggia la
scritta ARS (retorica). Sarà il piedistallo dal quale il vuoto discorso
politico verrà celebrato. L’opera curata da Romeo Castellucci è una riflessione
sul linguaggio, sulla voce, sulla sua materialità, sul senso, sul discorso e
sul potere che detiene chi lo padroneggia.
L’evidenza materiale della voce, quasi genitale per somiglianza
(ricorda Castellucci), ci viene mostrata grazie ad una proiezione sul fondo
bianco. Un attore si infila una sonda nel naso fino a raggiungere le sue corde
vocali. Così possiamo vederne le contrazioni dovute al parlare dell’attore che
recita il discorso del ciabattino: Cesare morirà! Il misterioso personaggio ha
una spilla con su scritto “vskij”. Si tratta di un omaggio a Stanislaskij? Ma
potrebbe anche essere Grotowski dice Castellucci durante l’incontro con il
pubblico, non ci è dato saperlo con certezza. Ciò che conta è che quel vskij ha
a che fare con il teatro. È portare il teatro nel teatro, o meglio, si tratta di
discutere di teatro con il teatro.
In un secondo momento Giulio Cesare in tunica rossa tiene il suo
discorso muto alla folla. I suoi gesti e suoi passi sono enfatizzati e resi
materia sonora da un sistema di microfoni. Indica il pubblico, lo incita a
sollevarsi. Non ci sarà speranza per lui. In posa plastica (tratta
dall’iconografia pittorica) berranno dal suo seno, il seno del potere, e lo
sacrificheranno per il futuro della società, come si fa con i grandi leader.
Da oltre la scena provengono rumori, sono inequivocabilmente i passi
di un cavallo che entra in scena guidato da un attore. Sul dorso del cavallo
vengono dipinte tre parole in aramaico antico “Mene Tekel Peres” (contati bilanciati
divisi) che compaiono nella parabola veterotestamentaria del profeta Daniele
come infausto presagio per il Re Baldassarre. Le citazioni contenute nel testo
spettacolare ideato da Castellucci sono molteplici e raffinate. È come se il
regista emiliano cercasse di mostrare in scena il pensiero prima che esso sia
verbalizzato, quando è (o meglio dà l’illusione di essere) pieno, totale,
onnicomprensivo. La parola è solo la
prima delle tecnologie utilizzate per trasportare il senso, e infine risulta la
meno precisa, l’unica capace di ingannare; ne è un fulgido esempio la scena
finale: in scena un attore laringectomizzato interpreta Marcantonio intento a dare
gli onori funebri a Cesare. L’ambiguità del discorso del Marcantonio
shakespeariano viene portata al parossismo nel lavoro della Societas. Le parole
si sentono a malapena, il soffio che fuoriesce dalla sua ferita fa contrarre i
volti degli spettatori meno avveduti. È la parola ambigua di chi manipola. Dice
di non poter rivelare il testamento di Cesare, se facesse altrimenti i
cittadini romani si sentirebbero in dovere di baciare le sue ferite. Ma allo
stesso tempo ci ricorda che Bruto condanna la colpevole ambizione (peccato
mortale) di Cesare. E per questo che Cesare doveva morire, poiché non ci sono
dubbi, Bruto è un uomo d’onore. Intanto del sangue del cuore di Cesare Marcantonio
si tinge la bocca ed apre la strada ad una nuova tirannide che avanza
implacabile, come l’esplosione finale di una fila di lampadine. Ne restano a
terra i frammenti, inutili, come carcasse di parole che non significano nulla.
Gianbattista Picerno
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