“Macbeth”, “Macbeth”, “Macbeth” sussurrano le tre Norne
mentre percorrono la ripida scalinata di un Tau completamente avvolto dalla
nebbia dirigendosi consapevoli e bramose verso il palcoscenico per compierne il
rito/studio. Sanno tutti ciò che lo aspetta: “Diventerai RE”. Il “Macbeth su
Macbeth, su Macbeth. Uno studio per la mano sinistra” di Chiara Guidi - in scena
al “Teatro grande” dell’Unical lo scorso mercoledì - si costruisce ogni volta
sulla scena, hic et nunc, come se fosse la prima.
Le scene vengono assemblate
da azioni in cui la parola diventa significante e il suono significato,
snodandosi in continui rimandi esoterici che sembrano moltiplicarsi nell’animo
di chi l’ascolta. Nessuno può uscirne illeso, l’attore quanto chi lo osserva.
Inquiete le streghe (sulla scena Chiara Guidi, Anna Lidia Molina, Agnese
Scotti) cominciano a cercare con vanità fra il terreno di Scozia o nei substrati
dell’anima, segnandone le tracce in croci fatte di scotch di carta, una
motivazione necessaria e aberrante per una tragedia già predetta e nello
spettacolo della Guidi e nell’opera di
Shakespeare.
“Nulla è per me tranne ciò che non è”, come se si trattasse solo
di un inciampo, voglia irrefrenabile di
potere, è il punto di partenza di una
ricerca pluriennale che sviscera il testo del drammaturgo inglese materializzandosi
in un libro che sputa le sue stesse pagine. È il rifiuto della consapevolezza, la
coscienza che parla, che ci parla, nelle sue continue contraddizioni che superano
il dualismo finendo per identificarsi nella stessa medesima cosa, come il
brutto e il bello (“il brutto è il bello”), il bene e il male. La trinità come
Satana, la Triplice Ecate, tre le Furie,
tre i Re, così tre volte si ripete il Macbeth della Sanzio, con la mano
sinistra, quella del diavolo, tra le croci di nastro adesivo, l’enorme fardello
fatto da una trave di legno, la fede per una corona e un trono minimale in
ferro placcato oro.
L’iconoclastia di una singolare poetica, quella della Socìetas,
che nel dramma ne rintraccia i simbolismi accuratamente consultati dal “racconto
dell’idiota” mescendo insieme le
superstizioni greche e romane a quelle del paese delle Streghe con i loro
gattacci, mentre i rituali magici ripudiano il mondo fisico esaltando quanto ha
di più nero e odioso il mondo dell’inconscio. Una sola parola può racchiuderne
probabilmente l’intero significato dell’opera: ambizione, quella che acceca le
pupille. “E più ci credi e più ci pensi. Finirai con il volerlo a tutti i
costi” dice una delle tre protagoniste che ora non sono più tre streghe, ma
un’unica e tormentata mente.
In scena
entra il violoncello di Francesco Guerri, sul palcoscenico fino alla fine col
suo suono reiterante, si posiziona in
parallelo al pugnale sospeso su un filo, sembrano oscillare insieme, archetto e
lama, in un'unica danza sfiancante, in un tenebroso gioco di tele occultatrici.
Nel buio neutro della scena la luce ora
penetra solo da una quinta, una voce fuori campo (“chi è la?”) gela il sangue tra
i mormorii degli insetti minutissimi e l’ululo del gufo - seducono e opprimono
i suoni creati da Giuseppe Ielasi - nel momento in cui il regicidio si compie, è
il campo onirico della memoria che perde il sonno, una memoria che dal suolo si erge maestosa e mostruosa
al centro della scena, come uno dei fantocci di Alfred Jarry. Nelle tenebre di
una coscienza sporca di sangue d’oro solo due sono gli sfondi bianchi, una
porta da cui sbuca il braccio della Guidi che insistentemente picchia - si
tratta di uno dei chiari richiami alla trama shakespeariana (Atto II, scena
III) - per poi macchiarsi di feccia e il
fondale in pvc di un finale che mostra gli unici colori tenui della pièce, mentre il violoncello
dall’arco infuocato suona, nel proscenio, il corpo di Lady Macbeth di Chiara
Guidi finalmente dorme, nella morte.
Il Macbeth della Socìetas è pura
allucinazione che realizza l’esperienza magica e liberatoria di cui Artaud
teorizzava, a dimostrarlo il lungo ed estasiato plauso del Tau.
Valeria Bonacci
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