Não é uma analise, é só um apelo de quem viveu de perto a dor,
a gente sofre, a gente explica, mas não resolve só complica,
a mente desespera, e o coração não espera
(Papo de Psicólogo- Pedro Mariano)
Polvere, il nuovo attesissimo lavoro di e
con Saverio La Ruina, dopo il debutto presso il Teatro Elfo Puccini di Milano
nel mese di gennaio, seguito da una breve tournée nei più importanti centri
teatrali della penisola, ha fatto tappa la scorsa settimana al Teatro Morelli
di Cosenza. Polvere va a comporre una sorta di
trilogia ideale con i precedenti, Dissonorata – testo che ha consegnato La Ruina agli onori della
cronaca, facendogli meritare l’UBU, nel 2007, come Miglior Attore Italiano ed
il Premio Hystrio alla Drammaturgia 2010 - e
La borto - ancora un UBU, nel
2010, come Miglior Testo Italiano e ancora un Premio Hystrio.
Lo
spettacolo racconta, in dieci brevi scene, la vicenda di due personaggi -
un’insegnante (interpretata dalla brava Jo Lattari) e un fotografo,
apparentemente upper middle class - segnata dalle relazioni umane, crudeli e scabrose
che la coppia vive all’interno del proprio spazio intimo. Fin dal principio
siamo introdotti in questo preciso contesto, dove la situazione di vita “familiare”
presto si trasforma in un incubo sempre più opprimente, osservato,vissuto e
ri-vissuto dallo speciale punto di vista del protagonista maschile. Impegnato
in un’indagine minuziosa e ossessiva a ricostruire il passato della compagna,
attraverso lo specchio deformante della propria psiche.
La
ripetitività ossessiva dell’azione scenica, attraversata dai procedimenti
minimalisti dei personaggi, risulta essere quasi una proiezione della
‘percezione paranoica’ dell’uomo.
Il
senso del perturbante appare come aspetto caratterizzante delle diverse
situazioni che si vanno delineando: forse la linea principale dello sviluppo
drammatico. Secondo Freud (Das Unheimlich, 1919) c’è una caratteristica di base
che determina la sensazione incontestabile di “perturbante”: l’apparizione del
male in ciò che è familiare e fa parte della nostra esperienza quotidiana.
Lo spazio della relazione,
dunque, come territorio privilegiato per la manifestazione di eventi e
situazioni inquietanti, micropolitica
della coppia. L’ambiente intimo come terreno di coltura del mostruoso. Nicchia fitta di interstizi aperti ad una pluralità di interpretazioni
e investigazioni multi-prospettiche, che si è dipanata nel tempo in percorsi di
stabilità e di mutamento, combinazioni semplici e relazioni complesse, regole
autoritarie e repertori di affetto, tensioni competitive e spazi separati. La coppia
quale espressione pluri-significante e modulare di diverse epoche, aree
geografiche, ceti sociali, appartenenze di classe, fedi religiose, ha mostrato
nel tempo mille volti, si è vestita di mille abiti, ha “recitato mille copioni”:
il complesso scambio di ruoli che si svolge all’interno del suo
contesto, la possibile disparità dei punti di vista come elemento generatore di
distanza; la sottile violenza dei rapporti quotidiani; l’induzione perenne del senso
di colpa. Sono soltanto alcuni dei molteplici nodi problematici che ne
caratterizzano le differenti incarnazioni storiche e sociali.
La
presenza oscura della violenza, irriducibile dinamica potenziale di qualsiasi
rapporto umano (non soltanto di quello uomo-donna), fa da sfondo all’intero
svolgimento del dramma, ed è una violenza declinata nelle forme più contorte:
dalla finta gentilezza inizialmente ostentata nel rapporto; al gioco che sfocia
inesorabilmente in sopruso; dalla coercizione psicologica all’interno del “focolare
domestico”; agli interrogatori ripetuti dell’uno sull’altra; dal timore dell’abbandono
che congela ogni rivolta, alla scena dello schiaffo da cui finalmente
scaturisce un tardivo (e dal pubblico lungamente atteso) e timido accenno di reazione.
Violenza che segna il graduale processo di
cosificazione al quale è esposto il personaggio femminile, quello con cui
tutti empatizziamo, o almeno siamo convinti di empatizzare.
Lo
spettatore osserva il precipitare degli eventi sulle rotte di una deriva paranoica,
descritta in modo piuttosto asettico e distaccato; racchiusa in dieci brevi stazioni/scene, ognuna delle quali
sembra quasi avere un titolo che la definisce, preannunciandone l’azione, il
contesto generale o il tema che verrà introdotto: il ritorno dalla festa,
“diciamoci tutto”, il quadro, la sedia, la sigaretta, la telefonata, il
cavallo, il thè, “chi è Ivan Donato?”, l’ultima telefonata. Descrivendo a
tratti un universo quasi pinteriano. Si
cerca di creare, lungo questa strada, una contaminazione/contagio, non solo sul piano dei
contenuti, nel quale arrivano a realizzarsi
una serie di antinomie scivolose, in cui i due elementi si compenetrano l’uno
nell’altro senza soluzione di continuità (affetto/violenza, desiderio/morte,
interno/esterno, casa/strada); ma anche sul piano espressivo, dove però il plot
e il dramma stentano a rifrangersi l’uno nell’altro; e tra lo spettatore e la
scena (nelle sue accezioni multiple), anche se la connessione - che pur a
fatica si stabilisce - non sembra mai sfociare in un vero e proprio cortocircuito
rivelatore.
Il
racconto avviene in tempo presente e tende quasi ad assumere la fisionomia di un’esposizione tecnica; le battute sono introdotte da locuzioni verbali che denunciano questa
sua caratteristica; così come la presenza dell’elemento epico nel racconto della scena, che paradossalmente cerca di raggiungere
quello che potrebbe definirsi “un teatro delle emozioni”.
Il
linguaggio verbale – nella drammaturgia ben scritta, a quattro mani, dai due
interpreti - è semplice e affilato, le iterazioni funzionali all’estetica della
sottrazione, inscritte con cura nelle tematiche che si è cercato di
evidenziare, e strettamente legate alla
configurazione di quell’universo oggettuale, che crediamo essere, in maniera
riuscita, uno dei punti cardine del lavoro. Il corpo femminile - oggetto privilegiato della “biopolitica” sociale
- inserito in questo processo meccanico
di omologazione forzata attraverso il tritacarne della coppia, irrompe, in
primo piano, nell’ambito della lingua: se ne definiscono gli stati di tensione,
si cerca di incarnare la gradazione delle sue emozioni e pulsioni più profonde,
si affinano le strategie della sua manipolazione fisica e psichica. Eppure c’è
qualcosa che alla fine non torna, quasi che questa oggettivazione estrema del
discorso investa in maniera irrimediabile anche l’affiorare della vita dei
personaggi, che paiono non riuscire mai ad acquisire nervi, carne e sangue; così
come la recitazione sostanzialmente piana, dei pur pregevoli interpreti; e soprattutto
la scrittura scenica, a nostro avviso troppo simbolista e convenzionale per
rendere conto di tali ambiziose premesse. Un insieme che infine non sembra riuscire
a farsi veicolo di questo dramma opprimente, fatta eccezione forse per le
gelide luci, disegnate da Dario De Luca, e per l’effimera e delicatamente ossessiva
colonna sonora, di Gianfranco De Franco. Dalla platea di questo speciale
teatrino anatomico, assistiamo impassibili al tentativo di dimostrare un
elementare dramma a tesi, che purtroppo non trova eco nella rigida monotonia di
un’azione scenica che appare sempre sul punto di deflagrare, ma senza mai arrivare
ad “accendersi”. Pur lasciandoci fra le mani un amaro pugno di cenere.
Manolo Muoio
Foto Angelo Maggio
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