domenica 22 febbraio 2015

Il Sangue, intenso "concerto per il mostro" di Pippo Delbono e Petra Magoni





Il teatro è un rituale antico, il rebus irriducibile di una realtà sfuggente e scivolosa, sequenza di frammenti epifanici volti a scuotere i nervi ed il cuore di un manipolo di spettatori affranti. E la semantica povera dei titoli di Pippo Delbono è come un lunghissimo geroglifico destinato a essere decodificato da improbabili archeologi di un futuro non troppo anteriore. Urlo, Guerra, Il Silenzio, La Paura, La Rabbia, Barboni, Esodo, Il Muro.
Il Sangue: solita mise classica trasandata, camicia bianca e bretelle sottili, Delbono entra con passo calmo e deciso mentre ancora sta sfumando la luce di sala, si accomoda nella postazione centrale, una sedia e un microfono ad asta sistemati su di un piccolo tappeto persiano; alla sua sinistra Petra Magoni - caschetto nero, lapstick carminio e giacca in tartan dai pesanti alamari dorati - prende posto su una delle due sedie disponibili e afferra il microfono che non lascerà fino al termine della serata, è un’estensione del suo corpo nervoso e scattante, pur nella presunta immobilità della posizione seduta, senza che per questo il suo diaframma sembri minimamente risentirne; Ilaria Fantìn defilata a destra, è circondata dai suoi antichi strumenti a corde, liuto, opharion, oud, chitarra … elettrica, avvolti in un drappo rosso sangue, unica isolata infrazione cromatica.

Il corpo e la voce debordanti del protagonista si impadroniscono subito dello spazio con dolcezza, con distrazione, con desolazione. Ci dicono che stiamo per assistere a un concerto. “Dovevo farlo con Laurie Anderson, ma poi Lou Reed si è ammalato e non se n’è fatto più niente…”. Dice di essere raffreddato, è stato in mezzo ai rom di Vaglio Lise a Cosenza, è passato dal campo di Ferramonti a Tarsia, sopralluoghi per il prossimo Vangelo cinematografico, un altro appassionato omaggio a Pier Paolo Pasolini. Questo è un “concerto per il mostro”, una teratologia oscura per questi esseri dei bordi, creature liminali, come gli stranieri, come gli zingari. Come Bobò, il romantico protagonista di tutti i suoi spettacoli, un omino delicato e ricurvo che ha trascorso quasi mezzo secolo rinchiuso in manicomio, prima di approdare con grazia e leggerezza ai palcoscenici di mezzo mondo, lo intravediamo lì dietro, rannicchiato nell’ombra, quasi mimetizzato con il nero del fondale. Come Giovanni Senzani, capo brigatista, libero dal 2010, dopo 29 anni tra carcere e condizionale per sequestri e uccisioni che fecero epoca (il caso Cirillo, il caso Roberto Peci), con il quale Delbono ha realizzato il film Sangue (senza l’articolo), un "dialogo tra un artista buddhista e un ex terrorista tornato in libertà", presentato nel 2013 al Festival di Locarno. Come  Edipo, l’essere immondo, colui che aveva veduto ciò che mai avrebbe dovuto vedere, “tra gli uomini il più odioso agli dei.”
Tutto questo ci viene raccontato come un aneddoto distratto, con voce incerta e cantilenante, un sibilo dai bassi profondi che invade la platea, trascinando con sé chiunque sia disposto a scivolare con dolcezza in questa “ship of fools” che si appresta a salpare. E lo spettacolo in fondo potrebbe anche finire qua, per potenza di sintesi ed impatto emozionale. Per altri saranno scariche di tosse canina e baluginare di smart-phone per quasi un’ora e mezza di performance, qualcuno addirittura abbandonerà in anticipo la sala, ma alla fine l’applauso sarà lungo e avvolgente e Bobò ne approfitterà, ancora una volta, per rubare la scena. La vera arte, si sa, non genera mai consensi univoci, e questo è uno spettacolo forsennato e in punta di piedi, un ossimoro per palati delicati, certo non un intermezzo da intrattenimento gastronomico.

Siamo subito scaraventati nel cuore pulsante della tragedia, nessun preambolo, nessun indugio narrativo, Edipo ha già scoperto la sua colpa e ne ha accettato le estreme conseguenze, ad accompagnarne il triste lamento, il canto trascendente e carnale a un tempo di una Petra/Antigone alle prese con un frammento dell’Hallelujah di Leonard Cohen. La scena è scarnificata, privata di ogni possibile orpello o sovrastruttura teatrale, in gioco è la nuda vita, corpi e voci di interpreti fuori dal comune che si fanno cantori di passioni archetipe, eco di sonorità ancestrali, che producono urgenti e scottanti derive di senso. La morte di Giocasta è già un’acre orgia di suoni. Delbono scatta in piedi per pochi attimi, gigante possente dai piedi d’argilla, un John Goodman con i tratti da “camallo”, la voce tagliente e melodiosa come la litania di un antico aedo. “Pleased to meet you, hope to guess my name”, la Magoni gioca a dadi con il diavolo, trasformandosi in improbabile alter-ego di un Mick Jagger d’antan.
Ed ecco che la furia si spegne in un delicato dialogo ad alta temperatura fra Edipo – ormai cieco mendìco - e la sua figlia prediletta, cui la voce improvvisamente morbida e pacificata di Petra dona una concretezza precisa e disarmante. "Gli esuli come noi devono chiedere alla gente del posto e fare quello che la gente dice".
Edipo ormai è in viaggio verso Colono, l’Edipo sulla strada di Henry Bauchau, ha per occhi gli occhi di sua figlia, spigolosa e selvaggia come un felino ferito. E improvvisamente il racconto diventa intimo, ricordo una poesia di Borges e una canzone che cantava sempre mia madre: Sole alla valle e sole alla collina / Per le campagne non c'è più nessuno /Addio addio amore io vado via /Amara terra mia amara e bella / Cieli infiniti e volti come pietra / Mani incallite ormai senza speranza / Addio addio amore io vado via / Amara terra mia amara e bella / Tra gli uliveti è nata già la luna / Un bimbo piange allatta un seno magro / Addio addio amore io vado via /Amara terra mia amara e bella.” Dall’oscurità il riflesso delle braccia scoperte di Bobò che sembrano accennare un saluto così come quelle del condannato che fa segnali tra le fiamme. “Sometimes I feel like a motherless child, a long way from home”. Delbono ci offre scampoli della sua profonda relazione con la madre da poco scomparsa. Dice un’antica tradizione islamica che la porta più ampia per raggiungere l’intimità della presenza è l’umiltà, ma questa porta è anche la più bassa, così che chi vi entra deve farlo piegando la propria testa, con l’intero proprio sé chinato in massima umiltà. “Cessate il vostro pianto, non c’è nessuno sulla Terra che sia immune dal dolore”.
Sulle note di “Nothing compares to you”, l’attore “sbaglia l’entrata”, ci sono una strofa e un ritornello da cantare per Petra, i due ammiccano e sorridono, lui comincia  a farle il verso, con un tocco di splendida autoironia, infine interviene: “C’era questa canzone cantata da Sinéad O’Connor, che sapete aveva detto delle cose sulla Chiesa…”
Infine l’aneddoto esilarante di Lou Reed che va a trovare la compagnia in camerino, dopo una recita parigina di Guerra, e chiede di conoscere il signor Nelson (altro storico “freak” del carrozzone delboniano, la cui magnifica interpretazione di My Way in quello spettacolo aveva attirato l’attenzione del rocker newyorkese) e questi che si rifiuta categoricamente, perché impegnato a fare delle astruse ricerche in internet, e poi Lou Reed che continua a chiedere ostinatamente di lui quando lo reincontrano a New York, livido e smarrito, poco prima della sua scomparsa.
L’ultimo coro è la Disamistade di Fabrizio De André, genovese come Delbono: “(…) due famiglie disarmate di sangue si schierano a resa e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. Lou Reed, De André, Bobò, anime salve che camminano sul lato selvaggio. Pippo si alza finalmente e scivola verso il retro della scena dove accenna una deliziosa e dissacrante danzetta, con la quale invita Bobò ad uscire dall’oscurità e a sistemarsi sulla sedia rimasta vuota, per seguire gli ultimi struggenti gorgheggi di Petra Magoni, con i suoi vocalizzi scomposti di una precisione ritmica assoluta.
È l’epilogo di un viaggio memorabile, prima di un caldo e lunghissimo applauso, durante il quale l’ombra sfuggente di Bobò si trasforma in una vedette consumata della scena.
“Gabba Gabba hey we accept you, ‘cause you’re one of us."

Manolo Muoio

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