Il teatro è un rituale antico, il rebus irriducibile di una realtà
sfuggente e scivolosa, sequenza di frammenti epifanici volti a scuotere i nervi
ed il cuore di un manipolo di spettatori affranti. E la semantica povera dei
titoli di Pippo Delbono è come un lunghissimo geroglifico destinato a essere
decodificato da improbabili archeologi di un futuro non troppo anteriore. Urlo,
Guerra, Il Silenzio, La Paura, La Rabbia, Barboni, Esodo, Il Muro.
Il Sangue: solita
mise classica trasandata, camicia
bianca e bretelle sottili, Delbono entra con passo calmo e deciso mentre ancora
sta sfumando la luce di sala, si accomoda nella postazione centrale, una sedia
e un microfono ad asta sistemati su di un piccolo tappeto persiano; alla sua
sinistra Petra Magoni - caschetto nero, lapstick carminio e giacca in tartan dai
pesanti alamari dorati - prende posto su una delle due sedie disponibili e
afferra il microfono che non lascerà fino al termine della serata, è un’estensione
del suo corpo nervoso e scattante, pur nella presunta immobilità della
posizione seduta, senza che per questo il suo diaframma sembri minimamente risentirne;
Ilaria Fantìn defilata a destra, è circondata dai suoi antichi strumenti a
corde, liuto,
opharion, oud, chitarra … elettrica, avvolti in un drappo rosso sangue, unica
isolata infrazione cromatica.
Il corpo e
la voce debordanti del protagonista si impadroniscono subito dello spazio con
dolcezza, con distrazione, con desolazione. Ci dicono che stiamo per assistere
a un concerto. “Dovevo farlo con Laurie Anderson, ma poi Lou Reed si è ammalato
e non se n’è fatto più niente…”. Dice di essere raffreddato, è stato in mezzo
ai rom di Vaglio Lise a Cosenza, è passato dal campo di Ferramonti a Tarsia,
sopralluoghi per il prossimo Vangelo cinematografico, un altro appassionato omaggio
a Pier Paolo Pasolini. Questo è un “concerto per il mostro”, una teratologia
oscura per questi esseri dei bordi, creature liminali, come gli stranieri, come
gli zingari. Come Bobò, il romantico protagonista di tutti i suoi spettacoli,
un omino delicato e ricurvo che ha trascorso quasi mezzo secolo rinchiuso in
manicomio, prima di approdare con grazia e leggerezza ai palcoscenici di mezzo
mondo, lo intravediamo lì dietro, rannicchiato nell’ombra, quasi mimetizzato
con il nero del fondale. Come Giovanni Senzani, capo brigatista, libero dal 2010, dopo 29
anni tra carcere e condizionale per sequestri e uccisioni che fecero epoca (il
caso Cirillo, il caso Roberto Peci), con il quale Delbono ha realizzato il film Sangue
(senza l’articolo), un "dialogo
tra un artista buddhista e un ex terrorista tornato in libertà", presentato nel 2013 al Festival di
Locarno. Come Edipo, l’essere immondo,
colui che aveva veduto ciò che mai avrebbe dovuto vedere, “tra gli uomini il
più odioso agli dei.”
Tutto questo
ci viene raccontato come un aneddoto distratto, con voce incerta e
cantilenante, un sibilo dai bassi profondi che invade la platea, trascinando
con sé chiunque sia disposto a scivolare con dolcezza in questa “ship of fools”
che si appresta a salpare. E lo spettacolo in fondo potrebbe anche finire qua,
per potenza di sintesi ed impatto emozionale. Per altri saranno scariche di
tosse canina e baluginare di smart-phone per quasi un’ora e mezza di
performance, qualcuno addirittura abbandonerà in anticipo la sala, ma alla fine l’applauso sarà lungo e avvolgente e Bobò ne
approfitterà, ancora una volta, per rubare la scena. La vera arte, si sa, non
genera mai consensi univoci, e questo è uno spettacolo forsennato e in punta di
piedi, un ossimoro per palati delicati, certo non un intermezzo da
intrattenimento gastronomico.
Siamo
subito scaraventati nel cuore pulsante della tragedia, nessun preambolo, nessun
indugio narrativo, Edipo ha già scoperto la sua colpa e ne ha accettato le
estreme conseguenze, ad accompagnarne il triste lamento, il canto trascendente
e carnale a un tempo di una Petra/Antigone alle prese con un frammento dell’Hallelujah
di Leonard Cohen. La scena è scarnificata, privata di ogni possibile orpello o
sovrastruttura teatrale, in gioco è la nuda vita, corpi e voci di interpreti
fuori dal comune che si fanno cantori di passioni archetipe, eco di sonorità
ancestrali, che producono urgenti e scottanti derive di senso. La morte di
Giocasta è già un’acre orgia di suoni. Delbono scatta in piedi per pochi attimi,
gigante possente dai piedi d’argilla, un John Goodman con i tratti da “camallo”,
la voce tagliente e melodiosa come la litania di un antico aedo. “Pleased to
meet you, hope to guess my name”, la Magoni gioca a dadi con il diavolo, trasformandosi
in improbabile alter-ego di un Mick Jagger d’antan.
Ed
ecco che la furia si spegne in un delicato dialogo ad alta temperatura fra
Edipo – ormai cieco mendìco - e la sua figlia prediletta, cui la voce
improvvisamente morbida e pacificata di Petra dona una concretezza precisa e
disarmante. "Gli esuli come noi devono chiedere alla gente del posto e
fare quello che la gente dice".
Edipo ormai
è in viaggio verso Colono, l’Edipo sulla
strada di Henry Bauchau, ha per occhi gli occhi di sua figlia, spigolosa e
selvaggia come un felino ferito. E improvvisamente il racconto diventa intimo,
ricordo una
poesia di Borges e una canzone che cantava sempre mia madre: “Sole alla valle e sole alla collina
/ Per le campagne non c'è più nessuno /Addio addio amore io vado via /Amara
terra mia amara e bella / Cieli infiniti e volti come pietra / Mani incallite
ormai senza speranza / Addio addio amore io vado via / Amara terra mia amara e
bella / Tra gli uliveti è nata già la luna / Un bimbo piange allatta un
seno magro / Addio addio amore io vado via /Amara terra mia amara e bella.”
Dall’oscurità il riflesso delle braccia scoperte di Bobò che sembrano accennare
un saluto così come quelle del condannato che fa segnali tra le fiamme. “Sometimes I
feel like a motherless child, a long way from home”. Delbono ci offre scampoli della sua
profonda relazione con la madre da poco scomparsa. Dice un’antica tradizione
islamica che
“(…) due famiglie disarmate di sangue si schierano a
resa e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”. . Pippo si alza finalmente e scivola
verso il retro della scena dove accenna una deliziosa e dissacrante danzetta, con
la quale invita Bobò ad uscire dall’oscurità e a sistemarsi sulla sedia rimasta
vuota, per seguire gli ultimi struggenti gorgheggi di Petra Magoni, con i suoi
vocalizzi scomposti di una precisione ritmica assoluta.
È l’epilogo di
un viaggio memorabile, prima di un caldo e lunghissimo applauso, durante il
quale l’ombra sfuggente di Bobò si trasforma in una vedette consumata della
scena.
“Gabba Gabba hey we accept you, ‘cause you’re one of us."
Manolo Muoio
Nessun commento:
Posta un commento