Venerdì
30 gennaio, al MORE del Teatro Morelli di Cosenza, andava in scena Lingua Imperii di Anagoor, giovane gruppo
di performer della Factory di
Centrale Fies. Centro di creazione e produzione
delle arti contemporanee che si trova nella vecchia centrale elettrica (ancora
funzionante) di Dro (Regione Autonoma del
Trentino Alto-Adige / Südtirol), e propaggine attuale della storica
esperienza del festival Drodesera, che tanta importanza ebbe per lo sviluppo
della ricerca performativa nell’intera penisola, tra gli anni ’90 e gli anni ’00.
Fies Factory, è
una crew di “artisti e creativi under
35”, un progetto di Centrale Fies appunto, a sostegno della creazione contemporanea,
nato nel 2007, che si irradia a largo raggio, “dall'ideazione di una strategia
di sviluppo dei progetti artistici alla vendita, passando per la gestione
finanziaria, la produzione, la ricerca dei possibili partner, la distribuzione,
la promozione e la comunicazione; in una struttura flessibile capace di
prendere forme diverse a seconda delle esigenze”.
Un nuovo concetto di fare residenza e un modo speciale per sostenere la nuova generazione di artisti. Era forte la curiosità di vedere all’opera questa giovane formazione, non solo per l’eco che c’era giunta dai fiumi d’inchiostro spesi dalla critica ufficiale, che ci parlava di una ricerca drammaturgica originale e volitiva, ma anche e soprattutto per la fascinazione che emana in maniera naturale da quasi tutte le proposte progettuali della Factory. In grado, da un lato di rendere disponibili strutture, mezzi economici e supporto logistico e creativo ai suoi componenti, e dall’altro di avvolgere tutto in una “confezione” dall’indubbio appeal seduttivo, nel gioco di rimandi, sempre scivoloso e pieno di insidie, delle strategie comunicative contemporanee.
Un nuovo concetto di fare residenza e un modo speciale per sostenere la nuova generazione di artisti. Era forte la curiosità di vedere all’opera questa giovane formazione, non solo per l’eco che c’era giunta dai fiumi d’inchiostro spesi dalla critica ufficiale, che ci parlava di una ricerca drammaturgica originale e volitiva, ma anche e soprattutto per la fascinazione che emana in maniera naturale da quasi tutte le proposte progettuali della Factory. In grado, da un lato di rendere disponibili strutture, mezzi economici e supporto logistico e creativo ai suoi componenti, e dall’altro di avvolgere tutto in una “confezione” dall’indubbio appeal seduttivo, nel gioco di rimandi, sempre scivoloso e pieno di insidie, delle strategie comunicative contemporanee.
Il tema dello spettacolo era “la lingua
dell’impero inteso come dominio coercitivo, la lingua povera, bruta ed
ingannevole delle propagande fasciste, gli alfabeti e le lingue insegnate a
forza, ma anche il bavaglio o l’assenza di voce imposti come un dono violento
dai dominatori, il linguaggio stesso della violenza.” C’erano tutte le premesse
e le aspettative migliori di una serata di teatro memorabile, come sempre più
di rado ci capita di vedere da queste parti.
Altrettanto forte e profonda quindi è stata la delusione,
dopo quasi un’ora e mezza di spettacolo, che ha lasciato dietro di sé niente di
più che qualche minuscolo, e sinceramente sbiadito, frammento di vita scenica e
tanti, tanti dubbi sullo stato della critica e della ricerca di casa nostra in
questo delicato passaggio epocale. L’azione si apre su due schermi a
cristalli liquidi appesi in posizione laterale, “sui quali si consuma l’agone
tra due ufficiali nazionalsocialisti campioni di pensieri divergenti”. Il tema del
confronto è la miriade di lingue originarie della zona caucasica e la loro
presunta utilizzazione in chiave politico ideologica, il testo è tratto da Le benevole di Littell. Uno dei due
sembra una sorta di linguista storico in divisa della Wermacht, l’altro si
limita a sorseggiare il suo tè con fare perplesso. Il dialogo in video tornerà
più volte, la vividezza dell’immagine, la particolare attenzione al suono e ai
rumori d’ambiente e i paradossi di cui si nutre ne faranno, senza dubbio, uno
dei quadri più pregevoli dell’intera messinscena, generando la curiosa
situazione per cui, giunti a teatro per assistere a un’opera dal vivo, si
desideri ardentemente l’apparizione di un video, per sfuggire al tedio indotto
dalle azioni degli attori in carne e ossa.
Il seguito è una sequela di isolate epifanie di ciò che
avrebbe potuto essere e invece rimane sistematicamente represso nella memoria e
nei nervi dello spettatore, come una sequenza di possibilità frustrate ad ogni
successivo snodo di un’azione a tratti persino irritante e – ci si perdoni
l’aggettivo piuttosto pesante per un’opera in vivo – in alcuni momenti addirittura
soporifera. L’effetto non è neppure quello, sempre temuto da chi si occupa di
messinscena, del semplice affastellamento, ma uno scivolare via inesorabile, nel
buio e nell’oblio della percezione dei confusi spettatori, di frammenti
inconcludenti, e spesso francamente fastidiosi, nella loro insopportabile e ripetuta
presunzione drammaturgica.
Viene da pensare al momento in cui gli interpreti
si spogliano facendo un mucchio dei loro corpi, vittime, questo sì, di
un’ingenuità spocchiosa del segno scenico da lasciare davvero esterrefatti (quanta
nostalgia per quelle cataste di corpi folgorati e straziati dalle convulsioni
della peste di Mysteries and smaller
pieces del Living, ed era ancora il 1961!); all'asciutta e vibrante scena
di tiro con l'arco, con quella freccia che rimane a frusciare nell’aria tesa del
palcoscenico, dando una delle rare scosse di tutti i novanta lunghissimi minuti,
come un monito, sulla forza potenzialmente dirompente ed esatta di un’azione
sincera; alla voce di Gayanée Movsisyan, la cantante armena - espressione di un
tradizione musicale e culturale le cui sonorità sembrano provenire dal centro
stesso della Terra – la cui performance, di potenza ancestrale, viene colpevolmente
mortificata per la presenza contemporanea sullo sfondo di una coreografia di tale
e tanta banalità e di un’imprecisione tecnologica talmente fastidiosa, da
rimanere davvero imbarazzati; penso al primo coro dell’Agamennone di Eschilo,
il cui racconto al principio ci aveva fatto sperare in ben altri devastanti
sviluppi e che, lo si voglia o no, non può fare a meno di esercitare la sua
potenza atavica in qualsiasi contesto lo si inserisca (troppo facile!); ai
commoventi “quindici consigli al genitore in lutto”, ma anche qui forse è in
gioco una nostra personale fragilità specifica, e comunque non può servire a
sciogliere le riserve sull’efficacia drammaturgica dell’insieme. E infine
pensiamo al frammento da Le Alpi nel mare
di Sebald, il racconto finale su San Giuliano, patrono dei cacciatori, e al
cervo che dallo schermo centrale, sulle note strazianti di un altro canto
armeno, continua a guardarci, fisso, mentre la luce pian piano si dissolve. Nella
mente risuonano le ultime parole pronunciate dall’attore al microfono: “Come
abbiamo fatto ad arrivare fino a questo punto?”.
Crediamo
che per molti spettatori, mentre sgusciavano via dalla platea furtivi e
imbarazzati, non prima di un timidissimo e breve applauso rituale, sia stato
davvero arduo sfuggire l’eco di questa domanda insinuante.
Manolo
Muoio
(Foto di Angelo Maggio)
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