All’ingresso in sala (con 20’ minuti
abbondanti di ritardo, viziaccio pessimo per gli eventi nella nostra città) un fumo
denso straripa dalla scena buia per invadere una platea che resterà pressoché vacante. Non più di un
centinaio di paganti hanno raggiunto l’ampio parterre del Teatro Morelli di
Cosenza in questo gelido mercoledì di quasi inverno per l’inizio del MORE, la stagione dedicata
alla scena contemporanea, curata da Scena Verticale in collaborazione con il
comune di Cosenza, MiBACT e Regione Calabria. Insomma, il teatro
in città sembra concepito più che altro come un evento mondano, se è
vero che non più di una settimana fa il Teatro Auditorium Unical (con il
biglietto del quale si può peraltro ottenere uno sconto del 50% proprio sugli
spettacoli del MORE) aveva fatto registrare un quasi tutto esaurito in uno spazio di più di 800 posti. Ma lì il
nome era quello “pesante” di un maestro riconosciuto della scena come Carlo
Cecchi e la proposta un caposaldo del teatro borghese, appunto, come l’Enrico
IV di Luigi Pirandello.
La
drammaturgia originale e la notevole verve interpretativa di Licia Lanera
(Premio UBU 2014 come migliore attrice under 35) non possiedono evidentemente
lo stesso potere d’attrazione sul distratto e spocchioso pubblico cittadino.
Nonostante questo handicap, e le caratteristiche dello spazio all’italiana - che
certo non aiutano l’intimità di un racconto come quello che la regista e
attrice pugliese offre in questo suo
acclamato lavoro - il suono della voce rauca, profonda e suadente
dell’interprete, avvolge da subito la
platea, precipitandola in una dimensione ipnotica. Complici le luci elementari
ma molto efficaci di Martin Palma, essenziali per restituire l’atmosfera del
racconto fiabesco e quasi horror che pian piano inizia a dipanarsi sulla scena e,
soprattutto, le ossessive composizioni elettroniche di Tommaso Qzerty Danisi
che tendono a generare uno stato ipnagogico che ben si addice al racconto della
favole nere di Cenerentola, la Sirenetta, Scarpette rosse, La regina
delle nevi e Biancaneve, il cui nucleo centrale – spogliato delle parti
edulcorate e consolatoria tipiche, ahinoi, delle versioni contemporanee per
bambini -
costituiscono il cuore pulsante di questo lavoro firmato Fibre Parallele.
“Io
la notte non dormo”, ci annuncia dal buio la voce della Lanera sapientemente
amplificata da effetti e distorsioni inquietanti, “e…
vorrei che non dormiste neanche voi”. La
musica da ossessione sottotraccia riempie pienamente la sala di una potenza feroce,
l’ombra che appare adesso in controluce pare essere quella della più classica delle
streghe incappucciate, ma subito si trasforma nella sagoma di un automa, un
essere inanimato che ci restituisce una parvenza di umanità attraverso il
movimento meccanico e circolare che il corpo dell’attrice – perfettamente
padrona della sua presenza fisica sulla scena - ci offre, fasciato in un body di
pelle nera, su di un improvvisato piedistallo, che rimarrà fino all’ultimo la
gabbia-centro di gravità dell’intera azione drammatica.
Il
racconto di Cenerentola è il più ricco e giocoso, nonostante si continui a
insistere, come da copione, sui dettagli più oscuri e cruenti, c’è sempre spazio per una piacevole ironia
che aiuta a stemperare l’ansia della ripetizione ossessiva. Le dita delle sorellastre, mutilate per
costringerle a entrare nella proverbiale calzatura, il sangue che scorre a
fiotti, la tortora che canta come un sinistro allarme elettronico, gli occhi
scavati che portano alla cecità di tutta una vita. Arte dell’accecamento come
primo espediente per resistere al dominio spietato della paura che ci spalanca
davanti l’abisso più nero della notte.
La
Sirenetta segnata da un destino maledetto, uccidere a tradimento l’essere amato
o dissolversi per sempre nella spuma del
mare. La vertigine dello specchio che restituisce la bellezza deteriorata come
un’immagine di dannazione eterna, un voto inestricabile offerto alle forze del
male.
Scarpette rosse che camminano, che corrono, che scivolano sotto altri moncherini
di piedi mozzati. “Ma che belle scarpe!” la potenza tagliente della sibilante
soffoca le vocali in uno stridore parossistico.
“I’m flesh and soul and bones. I’m
pain…”. Le
icone delle fiabe una dopo l’altra pian piano si sgretolano, si dissolvono come
gli incubi notturni alle prime luci dell’alba, “fino a diventare la realtà
stessa, la più feroce, la più fallimentare.” Una storia di insonnia che ci parla “di
alcune donne, delle loro ossessioni, delle loro manie, delle loro paure”. E arriva prepotente anche la voce
inconfondibile della grande Edith Piaf a squarciare l’incubo e l’illusione, Non, Je ne regrette rien. Mentre
l’attrice inizia a smontare il podio per ricavarne delle grandi lettere con le
quali cimentarsi nel gioco di ghiaccio dell’intelletto e “comporre la parola
che vorrei: eternità”.
Grande forza scenica e notevole prova
solitaria della performer, meno risolta a nostro avviso la dimensione
drammaturgica e registica, soprattutto negli intermezzi e nel finale, quando ci
si allontana dal plot delle favole, per scivolare sulle corde di una realtà,
che pare non avere, appunto, la medesima capacità affabulatoria. Il lavoro è presentato comunque come “un
work-in-progress continuo attraverso cui si ha la possibilità di allontanarsi
dall’idea originale, per poi farvi ritorno” e dunque gli si può perdonare una
certa incompiutezza di fondo.
Aspettiamo ora i prossimi appuntamenti del
MORE, sperando che il pubblico non si risvegli troppo sudato “in questa favola
di città”.
Manolo Muoio
Foto Angelo Maggio
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