Il teatro è un rituale antico, il rebus irriducibile di una realtà
sfuggente e scivolosa, sequenza di frammenti epifanici volti a scuotere i nervi
ed il cuore di un manipolo di spettatori affranti. E la semantica povera dei
titoli di Pippo Delbono è come un lunghissimo geroglifico destinato a essere
decodificato da improbabili archeologi di un futuro non troppo anteriore. Urlo,
Guerra, Il Silenzio, La Paura, La Rabbia, Barboni, Esodo, Il Muro.
Il Sangue: solita
mise classica trasandata, camicia
bianca e bretelle sottili, Delbono entra con passo calmo e deciso mentre ancora
sta sfumando la luce di sala, si accomoda nella postazione centrale, una sedia
e un microfono ad asta sistemati su di un piccolo tappeto persiano; alla sua
sinistra Petra Magoni - caschetto nero, lapstick carminio e giacca in tartan dai
pesanti alamari dorati - prende posto su una delle due sedie disponibili e
afferra il microfono che non lascerà fino al termine della serata, è un’estensione
del suo corpo nervoso e scattante, pur nella presunta immobilità della
posizione seduta, senza che per questo il suo diaframma sembri minimamente risentirne;
Ilaria Fantìn defilata a destra, è circondata dai suoi antichi strumenti a
corde, liuto,
opharion, oud, chitarra … elettrica, avvolti in un drappo rosso sangue, unica
isolata infrazione cromatica.