U’ Tingiutu. Un Aiace di
Calabria
compagnia Scena Verticale
visto al Teatro Morelli di Cosenza, il 20 aprile 2012.
compagnia Scena Verticale
visto al Teatro Morelli di Cosenza, il 20 aprile 2012.
Il
morto che cammina, fuori dal «gregge politico».
di Manolo Muoio*
Racconta
Platone nel Politico che ci fu un
tempo in cui era la divinità stessa a presiedere, con provvida attenzione, alla
vita del cosmo, assicurandone il movimento rotatorio. I demoni pascolavano i
viventi come fanno i pastori con gli animali, badando che ognuno avesse il
necessario per vivere. Così «non vi era
nulla di selvaggio: i viventi non si divoravano reciprocamente e non vi erano
guerre né contese». La terra produceva spontaneamente i suoi frutti, senza
bisogno di essere lavorata, si viveva «perlopiù all’aperto perché le stagioni
erano miti (…) su morbidi giacigli fatti di erba che la terra faceva
germogliare».
Ma
se mai davvero ebbe luogo questa età
dell’oro, certo erano già presenti
uomini feroci, assetati di sangue e di potere, nascosti nell’ombra ma pronti a
venirne fuori per fare razzia dei frutti della terra, impadronirsene, impacchettarli e istituire un monopolio.
Nell’orizzonte della polis (e della legge) uomini sopraffanno e governano altri uomini, secondo i limiti e i vizi che ne contraddistinguono la condizione mortale. Un essere umano – un politico – che regga la vita della comunità, mai potrà eguagliare la sapienza infallibile del pastore celeste. È l’Atene imperiale che si lancia alla conquista del mare e delle isole: la città democratica delle flotte e dei marinai, la polis, che con le sue navi, costruisce in maniera spietata il proprio potere e la propria prosperità, drenando ricchezze e tributi tanto dagli alleati quanto dalle comunità dei vinti. Il capitalismo al suo stadio primario, il germe della mafia che si insinua nel mito fondante della città-stato
Nell’orizzonte della polis (e della legge) uomini sopraffanno e governano altri uomini, secondo i limiti e i vizi che ne contraddistinguono la condizione mortale. Un essere umano – un politico – che regga la vita della comunità, mai potrà eguagliare la sapienza infallibile del pastore celeste. È l’Atene imperiale che si lancia alla conquista del mare e delle isole: la città democratica delle flotte e dei marinai, la polis, che con le sue navi, costruisce in maniera spietata il proprio potere e la propria prosperità, drenando ricchezze e tributi tanto dagli alleati quanto dalle comunità dei vinti. Il capitalismo al suo stadio primario, il germe della mafia che si insinua nel mito fondante della città-stato
Ma
esiste una possibilità ulteriore e non meno spaventosa: il dissidio e la
contesa che abitano il politico umano possono prendere forma nella strage di un
gregge sulla riva del mare, là dove le navi sono ancorate e i marinai-guerrieri
trovano riposo dalle loro scorribande al caldo delle tende e dei fuochi
notturni. La gang, la famiglia, il gruppo, questa cellula base dello sfruttamento
originario, non sono immuni dal cancro con cui contaminano e corrodono
l’armonia della vita in comune.
Nella
tragedia sofoclea, Aiace massacra solo pecore e buoi, ma quello che accade agli
animali innocenti è tuttavia indicatore,
e rivelatore, di ciò che sarebbe potuto comunque accadere al «gregge» politico
e ai suoi sconsiderati pastori.
E per questo che egli diventa «nu muartu ca camina», nu Tingiutu, nell’apprezzatissima messa
in scena omonima ad opera di Dario De Luca, ospitata al Teatro Morelli,
nell’ambito del progetto MORE, lo scorso 20 aprile. Attraverso un’accorta traduzione linguistica, liberamente
ispirata alla nota tragedia classica, in un calabrese moderno che fa riecheggiare
di una vibrazione sinistra la sua matrice arcaica e primordiale, l’autore,
regista e attore cosentino ci offre un’affascinante chiave di lettura dell’antico
tema eroico.
La
scena si apre in un’agenzia di pompe funebri, dove i picareschi addetti alla
composizione dei cadaveri, che scopriremo alle prese con la preparazione del
corpo di Aiace, danno vita a un delizioso prologo di grottesca ferocia: è già
chiaro come anche ai ranghi più bassi della scala sociale, l’introiezione
passiva della cultura paramafiosa sia estrema, assoluta. Pochi tratti per
svelare le vacue gerarchie, lo spregio della vita umana, la sottomissione resa
come prezzo dell’appartenenza, l’immaginario intriso di tradizione avariata e
putrido machismo. Il tutto agito con un tocco di ironica leggerezza che ce li
rende subdolamente vicini, forse addirittura simpatici, proiettandoci
inesorabilmente nel meccanismo millenario dell’identificazione. Sei tu? Sono
io? Siamo noi…
Facciamo
appena in tempo a nasconderci, come dei complici che certo non apriranno bocca,
dietro la quarta parete di tapparelle alla veneziana - fatta scivolare
silenziosamente dall’alto da uno degli attori - che alcuni colpi di revolver esplodono
in sequenza, scuotendo l’aria e lo spazio della platea e trascinandoci in una
vera e propria discesa agli inferi, che prende le forme di un lungo flash-back / fast-forward.
Aiace
ha rapito Ulisse, infuriato per le decisioni che lo escludono dal potere nella
gang, dovrà vedersela con il potente clan degli Atridi, che ormai detiene il
monopolio indiscusso della violenza. Rimarrà solo, preda dei suoi fantasmi, in
un delirio alimentato dal rancore, dal risentimento e dal demone della cocaina
che gli offusca la mente e lo porterà, in un vortice di perdizione, a togliersi
la vita. Il suo cadavere verrà insultato e profanato, il tradimento
intollerabile pagato a duro prezzo.
Gli
ingredienti dell’originale ci sono tutti: il dissidio e la contesa, qui
declinato secondo le bieche dinamiche interne a una banda malavitosa; l’eterna
questione dell’onore, di cui devono ammantarsi, pena la decadenza, coloro che
aspirano a controllare le leve del potere; l’arcaico peccato della hýbris, la tracotanza dell’eroe che
troppo confida nella propria forza, rifiutando il sostegno degli dei; l’onta
della profanazione riservata a chi si è macchiato di insubordinazione, di
tradimento, a chi ha osato camminare fuori dal gregge. E ancora, la collera e
la reazione vendicativa, caratteristiche imprescindibili della soggettività
eroica, che sfociano nella follia omicida e nel colpo di scena del suicidio,
attraverso lo svelamento commovente del dramma esistenziale di questo Aiace piccolo piccolo, che ha giocato a fare
l’eroe (played to be a hero), perdendo
miseramente la sua guerra per il potere.
Una
terribile epopea di sangue e morte, cui l’impressionante performance – come
autore e come interprete - di Dario De Luca (Aiace), e dei suoi notevoli attori
Marco Silani (Agamennone), Fabio Pellicori (Ulisse), Ernesto Orrico (Menelao), Rosario
Mastrota (Teucro) riescono a restituire nervi e carne, attraverso una messa in
scena e una recitazione quasi filmiche, e al tempo stesso di grande suggestione
teatrale, con alcune matrici forti, evidenti e dichiarate, nel cinema di genere,
che ne esaltano la dimensione meta-narrativa. Ma soprattutto offrendoci, in un
inatteso stimolo intellettuale, non già la consapevolezza comune che la
tragedia classica tratti temi eterni, che è sempre possibile riattualizzare,
secondo le contingenze e le sfumature del tempo presente, quanto la oscura
sensazione di come alcune forme contemporanee di degenerazione della vita pubblica,
la violenza esercitata da certi gruppi malavitosi, più o meno legittimi, che
tutto e tutti vorrebbero ricondurre al grigiore del gregge politico; persino alcuni riflessi condizionati, piccoli
gesti, apparentemente innocui, a cui tutti noi spesso non evitiamo di
indulgere, nella nostra quotidianità, siano l’emblema più sinistro del legame
profondo e viscerale che ancora oggi ci lega a quella tanto esaltata cultura
classica, di quanto affondino le radici in quell’humus magno greco che forse di altro non era fatto se non di guerre
e contese, sopraffazione e stragi, lotte
fratricide e tradimenti disperati in cui l’uomo
era lupo all’uomo.
La
vecchia eterna tragedia del vivere insieme insomma, con buona pace del mito delle
letteratura e delle belle arti.
*Psiconauta
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