Il testo inedito di Ciro Lenti messo in scena da Adriana Toman
dal titolo “Mio cognato Mastrovaknich” (visto al Piccolo dell’Unical venerdì
scorso) è una storia che va oltre il tempo e il luogo in cui si colloca.
Siamo nel 1943, nella cella spoglia del campo di
internamento di Ferramonti di Tarsia, ambientazione scelta per fare chiarezza
storica sul luogo come l’autore stesso ha dichiarato. Qualche sedia e due
lettini occupati rispettivamente da Uccio (Marco Silano), un calabrese
semplicione con la fobia del giudizio altrui, e Paolo Mastrovaknich,
professore polacco omosessuale (Paolo Mauro). L’intreccio fa si che la cultura
del professore intersecandosi con la possibilità che egli offre ad Uccio di
evadere dal campo, riesca pian piano a farne cadere i pregiudizi, fino scaturire
in una profonda amicizia (difatti nel finale sarà proprio Uccio a cedere il
tentativo di evasione al professore, in vista dell’ispezione nazista che
condannerebbe a morte Mastrovaknich per le sue origini ebraiche).
Le scelte registiche della Toman scandiscono un tempo sempre
uguale che pure nei climax sembra
rimanere invariato. Il ritmo cadenzato
dal buio dei cambi scena restituisce la stessa stanza, la medesima immagine,
amplificandone la percezione reprimente dell’essere rinchiusi, stesso effetto quello prodotto dal reiterarsi
di alcune azioni come lo spazzare a terra, il fumare, o stendere e raccogliere i panni, un’asfissia
equilibrata dalla figura grottesca di Uccio che con la sua ingenuità e sue
parole storpiate rende la pièce più leggera ma non meno riflessiva. Due figure opposte, due culture diverse quelle
dei protagonisti che sembrano impersonarsi uno nell’illusione e l’altro nella
disillusione. Il professore è pienamente consapevole di quello che sta
accadendo fuori da Ferramonti, cosciente del genocidio che si sta compiendo, al
contrario di Uccio umile fabbro intrappolato dai luoghi comuni della sua
piccola realtà, convinto di poter
parlare con il “podestà” per poter risolvere il suo problema (Uccio si trova
nella baracca dei gay per equivoco).
Il racconto calabrese di Lenti dal campo di Ferramonti con
la sua storia misconosciuta arriva a noi come uno specchio, restituendo chiare immagini di una realtà
purtroppo attuale. Basti pensare al “voi” messo in bocca ad Uccio, quel voi che
il duce imponeva ai tempi del fascismo, in Calabria ancora molto usato, ai luoghi
comuni e pregiudizi ancora da sradicare e di quanto sia fondamentale la cultura
per abbatterli.
Lo spettacolo, prodotto dall’associazione culturale “Arciere”
e patrocinato dall’Arcigay di Cosenza, Reggio Calabria e Catanzaro, farà
un'altra tappa cosentina sabato 7 novembre al Teatro dell’Acquario.
Valeria Bonacci
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