Per una lunghezza fuori misura
di Gigi Roggero
“La lunghezza dell’onda. Fine della sinistra e nuovi movimenti” di Francesco Raparelli
(Ponte alle Grazie, 2009, pp. 160, € 12,60)
Allora, il libro di Francesco Raparelli esce al momento giusto, non solo per ricostruire i passaggi dell’onda anomala, ma soprattutto per interrogarne la continuità. Tenere il punto per rilanciare il discorso. Per misurare, appunto, la lunghezza dell’onda. L’autore usa una famosa espressione di Wittgenstein per marcare il luogo di partenza della sua analisi: la scala è gettata.
La nuova composizione del lavoro cognitivo, infatti, è salita a un livello di compiuta socializzazione delle proprie forme di produzione e di vita sul piano metropolitano, di assorbimento nel suo corpo vivo delle capacità di organizzazione della cooperazione sociale e di autonomizzazione dell’intelligenza collettiva dal capitale. Per questo motivo i tagli all’università, a partire da cui l’onda ha cominciato a montare, sono il tentativo di “affamare la bestia”, cioè questa nuova composizione soggettiva che nel movimento è divenuta “animale politico”. Si tratta di una meritocrazia capovolta e a costo zero, tesa cioè a giustificare lo storico disinvestimento e la dismissione finale del sistema formativo. L’anti-intellettualismo governativo non mira dunque a un indistinto attacco a una peraltro inesistente “comunità accademica”, fratturata al proprio interno da opachi ma affatto reali rapporti di potere e di produzione; né è liquidabile come residuo anti-moderno ascrivibile alla rozza impresentabilità degli esponenti della maggioranza berlusconiana.
È invece, a tutti gli effetti, una tecnologia di governo della contemporaneità, atta a costruire linee di segmentazione e divisione che bloccano l’esercizio di autonomia della cooperazione sociale. Saliti a questo livello, la vecchia scala della sinistra non solo è inutile, ma è estranea alla nuova soggettività formatasi nella dissoluzione del fordismo. Raparelli fissa con precisione le recenti tappe della crisi della sinistra italiana, che negli ultimi anni è passata attraverso l’opportunistico voltafaccia bertinottiano al movimento globale ed è culminata nella scomparsa della sinistra cosiddetta radicale, fagocitata dalla propria presuntuosa stupidità nell’esperienza del governo Prodi. Consumata la tragedia, non resta che farsa. Le radici di tale crisi, tuttavia, sono ben più profonde: affondano esattamente nell’irrappresentabilità delle nuove figure del lavoro vivo.
In modo chiaro ed efficace, nella seconda parte del libro, l’autore ripercorre alcune delle principali ipotesi teoriche e interpretative del post-operaismo, ossia di un movimento di pensiero che si fa carne nell’organizzazione del conflitto. Qui la crisi globale, lungi dal rappresentare la trasfigurazione dell’economia finanziaria rispetto a una supposta economia finanziaria, o essere semplicemente imputabile alla corruzione dei mascalzoni e dei furbetti, trova la propria spiegazione nella materialità dei nuovi rapporti di produzione. La crisi, dunque, è elemento permanente del capitale nella sua fase “comunista”, per riprendere la provocatoria perspicuità dell’Economist, ovvero di un meccanismo di accumulazione che è costretto a inseguire l’auto-organizzazione della moltitudine, a produrre valore catturandola a valle anziché organizzandola a monte.
In questo contesto, come trasformare quel geniale slogan dell’onda, “noi la crisi non la paghiamo”, in programma politico e terreno di generalizzazione del conflitto? Raparelli sintetizza due nodi di programma e un tema di orizzonte strategico, innervati dalle discussioni e dalle pratiche militanti e di conflitto degli ultimi anni.
I primi due sono facilmente riassumibili: reddito e libero accesso ai saperi. Non si tratta di semplici parole d’ordine: nell’onda questi strani studenti, attraverso quella straordinaria velocità dei processi di soggettivazione che avviene solo nell’insorgenza del conflitto, hanno dato carne e sangue alle rivendicazioni e pratiche di nuovo welfare. Anche molti di coloro che facevano appello alla moralità contro i corrotti, nel giro di poche settimane si sono confrontati con determinazione contro quei poliziotti che difendono il sistema che genera corruzione. Il velo è stato squarciato. Qui la retorica della meritocrazia, afferrando il suo nocciolo materiale, può rovesciarsi in lotta contro il declassamento e in pratica costituente. Non perché vada difesa l’università pubblica, ma perché ne va costruita un’altra. Un’università comune, o meglio un’università del comune. Un’università per la qualità dei saperi, dunque contro la meritocrazia: perché l’eccellenza non è una questione di misura, ma di esercizio della decisione collettiva sulla ricchezza sociale che autonomamente produciamo.
In questa direzione, il superamento – finalmente definitivo – della forma-partito non significa l’ingenua fiducia nella forma-movimento, e soprattutto mette in guardia dalla sua declinazione debole. Non fosse altro perchè, come traspare dal libro, questo termine assume significati parecchio diversi sul piano transnazionale. In varie parti del mondo, per intenderci, è una categoria più utile alla teoria sociologica che alla pratica politica. Si tratta allora di ripensarlo e riattraversarlo imparando una nuova lingua dell’organizzazione. Una lingua della moltitudine. Risuona qui la domanda, cruciale, che Toni Negri colloca nel cuore della sua prefazione: “sarà trasferibile questa esperienza in una definitiva scelta di vita, in un nuovo radicamento ribelle dell’esistenza?”. Come, in altri termini, l’onda può divenire istituzione del comune, per riprendere quel tema strategico cui allude l’autore? Per rispondere, la scala è gettata anche per forme di movimento che oggi sono inadeguate ai compiti che la nuova composizione moltitudinaria del sapere vivo pone. E la ricerca delle nuove forme di organizzazione, come Raparelli giustamente premette, non può che essere una ricerca collettiva e di parte.
Gigi Roggero
(Articolo tratto da Uniriot Network - www.uniriot.org)
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