mercoledì 28 ottobre 2009
Università, via libera del CdM alla riforma Gelmini
da IL SOLE 24 ORE
Il Consiglio dei ministri ha dato il via libera al disegno di legge sull'università del ministro Mariastella Gelmini. La figura del ricercatore diventa a tempo determinato, cambiano le modalità di elezione dei rettori, arrivano il fondo per il merito degli studenti più bravi e anche i codici etici anti-parentopoli.
Si cambia registro, dunque, entro 180 giorni le università dovranno rivedere i loro statuti, snellire consigli di amministrazione e senato accademici, ridurre le facoltà, inserire personale esterno nei nuclei di valutazione. E, soprattutto, non ci saranno più i vecchi concorsi interni che permettevano ai baroni di piazzare i loro candidati. Mentre per i prof scatta l'obbligo di fare 1.500 Ore all'anno, di cui 350 dedicate alla didattica. Il ddl si compone di 27 pagine e 15 articoli che toccano anche il problema dei crediti extrauniversitari (saranno al massimo 12 non più 60) e quello dei lettori di scambio stranieri che vengono ripristinati.
Rettori a tempo eletti dai prof - le università avranno sei mesi per mettere mano agli statuti e rivedere la loro governance. Se non lo faranno avranno tre mesi di deroga, poi, però, scatta il commissariamento. Senati accademici e cda dovranno essere più snelli. I rettori potranno restare in carica al massimo otto anni e cambiano le modalità di elezione: saranno scelti con voto ponderato dei soli docenti.
Facoltà e dipartimenti dovranno essere semplificati: le prime potranno essere al massimo 12 negli atenei più grandi. Per evitare sdoppiamenti gli atenei vicini possono federarsi. Gli studenti potranno dare il loro voto di gradimento ai docenti.
Più soldi ai meritevoli (professori e studenti) - al ministero dell'economia sarà creato un fondo per il merito degli universitari che erogherà borse e buoni, ma non a pioggia: per accedere bisognerà partecipare a dei test nazionali. I soldi si possono usare anche per mantenersi negli studi, per non perdere le borse bisognerà essere in regola con gli esami. Sono previsti prestiti d'onore. Sarà studiato anche un sistema di incentivi per gli atenei migliori con un rafforzamento della valutazione anche sulle politiche di reclutamento. Saranno valutati anche docenti e ricercatori: chi non si impegna tra i prof rischia di non avere gli scatti stipendiali. Occhi puntati poi sui bilanci degli atenei: chi non saprà tenere i conti in regola o rientrare da situazioni di dissesto finanziario rischia il commissariamento.
Reclutamento professori e ricercatori a termine - per i docenti arriva l'abilitazione nazionale di durata quadriennale assegnata sulla base delle pubblicazioni da una commissione sorteggiata tra esperti nazionali e internazionali.
Solo chi ha l'abilitazione può partecipare ai concorsi di ateneo che avverrano sulla base di titoli e del curriculum con i bandi pubblicati anche sul sito dell'ue e del miur. Non ci saranno invece più concorsi per i ricercatori a tempo indeterminato. Ci saranno solo contratti a termine di tre anni rinnovabili con selezioni pubbliche. Dopo il terzo anno lo studioso può essere chiamato dall'ateneo per un posto di docente. Anche il ministero potrà fare i suoi bandi per sostenere i migliori. Lo stesso vale per gli assegnisti della ricerca.
In libreria "La lunghezza dell'Onda"
Per una lunghezza fuori misura
di Gigi Roggero
“La lunghezza dell’onda. Fine della sinistra e nuovi movimenti” di Francesco Raparelli
(Ponte alle Grazie, 2009, pp. 160, € 12,60)
Allora, il libro di Francesco Raparelli esce al momento giusto, non solo per ricostruire i passaggi dell’onda anomala, ma soprattutto per interrogarne la continuità. Tenere il punto per rilanciare il discorso. Per misurare, appunto, la lunghezza dell’onda. L’autore usa una famosa espressione di Wittgenstein per marcare il luogo di partenza della sua analisi: la scala è gettata.
La nuova composizione del lavoro cognitivo, infatti, è salita a un livello di compiuta socializzazione delle proprie forme di produzione e di vita sul piano metropolitano, di assorbimento nel suo corpo vivo delle capacità di organizzazione della cooperazione sociale e di autonomizzazione dell’intelligenza collettiva dal capitale. Per questo motivo i tagli all’università, a partire da cui l’onda ha cominciato a montare, sono il tentativo di “affamare la bestia”, cioè questa nuova composizione soggettiva che nel movimento è divenuta “animale politico”. Si tratta di una meritocrazia capovolta e a costo zero, tesa cioè a giustificare lo storico disinvestimento e la dismissione finale del sistema formativo. L’anti-intellettualismo governativo non mira dunque a un indistinto attacco a una peraltro inesistente “comunità accademica”, fratturata al proprio interno da opachi ma affatto reali rapporti di potere e di produzione; né è liquidabile come residuo anti-moderno ascrivibile alla rozza impresentabilità degli esponenti della maggioranza berlusconiana.
È invece, a tutti gli effetti, una tecnologia di governo della contemporaneità, atta a costruire linee di segmentazione e divisione che bloccano l’esercizio di autonomia della cooperazione sociale. Saliti a questo livello, la vecchia scala della sinistra non solo è inutile, ma è estranea alla nuova soggettività formatasi nella dissoluzione del fordismo. Raparelli fissa con precisione le recenti tappe della crisi della sinistra italiana, che negli ultimi anni è passata attraverso l’opportunistico voltafaccia bertinottiano al movimento globale ed è culminata nella scomparsa della sinistra cosiddetta radicale, fagocitata dalla propria presuntuosa stupidità nell’esperienza del governo Prodi. Consumata la tragedia, non resta che farsa. Le radici di tale crisi, tuttavia, sono ben più profonde: affondano esattamente nell’irrappresentabilità delle nuove figure del lavoro vivo.
In modo chiaro ed efficace, nella seconda parte del libro, l’autore ripercorre alcune delle principali ipotesi teoriche e interpretative del post-operaismo, ossia di un movimento di pensiero che si fa carne nell’organizzazione del conflitto. Qui la crisi globale, lungi dal rappresentare la trasfigurazione dell’economia finanziaria rispetto a una supposta economia finanziaria, o essere semplicemente imputabile alla corruzione dei mascalzoni e dei furbetti, trova la propria spiegazione nella materialità dei nuovi rapporti di produzione. La crisi, dunque, è elemento permanente del capitale nella sua fase “comunista”, per riprendere la provocatoria perspicuità dell’Economist, ovvero di un meccanismo di accumulazione che è costretto a inseguire l’auto-organizzazione della moltitudine, a produrre valore catturandola a valle anziché organizzandola a monte.
In questo contesto, come trasformare quel geniale slogan dell’onda, “noi la crisi non la paghiamo”, in programma politico e terreno di generalizzazione del conflitto? Raparelli sintetizza due nodi di programma e un tema di orizzonte strategico, innervati dalle discussioni e dalle pratiche militanti e di conflitto degli ultimi anni.
I primi due sono facilmente riassumibili: reddito e libero accesso ai saperi. Non si tratta di semplici parole d’ordine: nell’onda questi strani studenti, attraverso quella straordinaria velocità dei processi di soggettivazione che avviene solo nell’insorgenza del conflitto, hanno dato carne e sangue alle rivendicazioni e pratiche di nuovo welfare. Anche molti di coloro che facevano appello alla moralità contro i corrotti, nel giro di poche settimane si sono confrontati con determinazione contro quei poliziotti che difendono il sistema che genera corruzione. Il velo è stato squarciato. Qui la retorica della meritocrazia, afferrando il suo nocciolo materiale, può rovesciarsi in lotta contro il declassamento e in pratica costituente. Non perché vada difesa l’università pubblica, ma perché ne va costruita un’altra. Un’università comune, o meglio un’università del comune. Un’università per la qualità dei saperi, dunque contro la meritocrazia: perché l’eccellenza non è una questione di misura, ma di esercizio della decisione collettiva sulla ricchezza sociale che autonomamente produciamo.
In questa direzione, il superamento – finalmente definitivo – della forma-partito non significa l’ingenua fiducia nella forma-movimento, e soprattutto mette in guardia dalla sua declinazione debole. Non fosse altro perchè, come traspare dal libro, questo termine assume significati parecchio diversi sul piano transnazionale. In varie parti del mondo, per intenderci, è una categoria più utile alla teoria sociologica che alla pratica politica. Si tratta allora di ripensarlo e riattraversarlo imparando una nuova lingua dell’organizzazione. Una lingua della moltitudine. Risuona qui la domanda, cruciale, che Toni Negri colloca nel cuore della sua prefazione: “sarà trasferibile questa esperienza in una definitiva scelta di vita, in un nuovo radicamento ribelle dell’esistenza?”. Come, in altri termini, l’onda può divenire istituzione del comune, per riprendere quel tema strategico cui allude l’autore? Per rispondere, la scala è gettata anche per forme di movimento che oggi sono inadeguate ai compiti che la nuova composizione moltitudinaria del sapere vivo pone. E la ricerca delle nuove forme di organizzazione, come Raparelli giustamente premette, non può che essere una ricerca collettiva e di parte.
Gigi Roggero
(Articolo tratto da Uniriot Network - www.uniriot.org)
di Gigi Roggero
“La lunghezza dell’onda. Fine della sinistra e nuovi movimenti” di Francesco Raparelli
(Ponte alle Grazie, 2009, pp. 160, € 12,60)
Allora, il libro di Francesco Raparelli esce al momento giusto, non solo per ricostruire i passaggi dell’onda anomala, ma soprattutto per interrogarne la continuità. Tenere il punto per rilanciare il discorso. Per misurare, appunto, la lunghezza dell’onda. L’autore usa una famosa espressione di Wittgenstein per marcare il luogo di partenza della sua analisi: la scala è gettata.
La nuova composizione del lavoro cognitivo, infatti, è salita a un livello di compiuta socializzazione delle proprie forme di produzione e di vita sul piano metropolitano, di assorbimento nel suo corpo vivo delle capacità di organizzazione della cooperazione sociale e di autonomizzazione dell’intelligenza collettiva dal capitale. Per questo motivo i tagli all’università, a partire da cui l’onda ha cominciato a montare, sono il tentativo di “affamare la bestia”, cioè questa nuova composizione soggettiva che nel movimento è divenuta “animale politico”. Si tratta di una meritocrazia capovolta e a costo zero, tesa cioè a giustificare lo storico disinvestimento e la dismissione finale del sistema formativo. L’anti-intellettualismo governativo non mira dunque a un indistinto attacco a una peraltro inesistente “comunità accademica”, fratturata al proprio interno da opachi ma affatto reali rapporti di potere e di produzione; né è liquidabile come residuo anti-moderno ascrivibile alla rozza impresentabilità degli esponenti della maggioranza berlusconiana.
È invece, a tutti gli effetti, una tecnologia di governo della contemporaneità, atta a costruire linee di segmentazione e divisione che bloccano l’esercizio di autonomia della cooperazione sociale. Saliti a questo livello, la vecchia scala della sinistra non solo è inutile, ma è estranea alla nuova soggettività formatasi nella dissoluzione del fordismo. Raparelli fissa con precisione le recenti tappe della crisi della sinistra italiana, che negli ultimi anni è passata attraverso l’opportunistico voltafaccia bertinottiano al movimento globale ed è culminata nella scomparsa della sinistra cosiddetta radicale, fagocitata dalla propria presuntuosa stupidità nell’esperienza del governo Prodi. Consumata la tragedia, non resta che farsa. Le radici di tale crisi, tuttavia, sono ben più profonde: affondano esattamente nell’irrappresentabilità delle nuove figure del lavoro vivo.
In modo chiaro ed efficace, nella seconda parte del libro, l’autore ripercorre alcune delle principali ipotesi teoriche e interpretative del post-operaismo, ossia di un movimento di pensiero che si fa carne nell’organizzazione del conflitto. Qui la crisi globale, lungi dal rappresentare la trasfigurazione dell’economia finanziaria rispetto a una supposta economia finanziaria, o essere semplicemente imputabile alla corruzione dei mascalzoni e dei furbetti, trova la propria spiegazione nella materialità dei nuovi rapporti di produzione. La crisi, dunque, è elemento permanente del capitale nella sua fase “comunista”, per riprendere la provocatoria perspicuità dell’Economist, ovvero di un meccanismo di accumulazione che è costretto a inseguire l’auto-organizzazione della moltitudine, a produrre valore catturandola a valle anziché organizzandola a monte.
In questo contesto, come trasformare quel geniale slogan dell’onda, “noi la crisi non la paghiamo”, in programma politico e terreno di generalizzazione del conflitto? Raparelli sintetizza due nodi di programma e un tema di orizzonte strategico, innervati dalle discussioni e dalle pratiche militanti e di conflitto degli ultimi anni.
I primi due sono facilmente riassumibili: reddito e libero accesso ai saperi. Non si tratta di semplici parole d’ordine: nell’onda questi strani studenti, attraverso quella straordinaria velocità dei processi di soggettivazione che avviene solo nell’insorgenza del conflitto, hanno dato carne e sangue alle rivendicazioni e pratiche di nuovo welfare. Anche molti di coloro che facevano appello alla moralità contro i corrotti, nel giro di poche settimane si sono confrontati con determinazione contro quei poliziotti che difendono il sistema che genera corruzione. Il velo è stato squarciato. Qui la retorica della meritocrazia, afferrando il suo nocciolo materiale, può rovesciarsi in lotta contro il declassamento e in pratica costituente. Non perché vada difesa l’università pubblica, ma perché ne va costruita un’altra. Un’università comune, o meglio un’università del comune. Un’università per la qualità dei saperi, dunque contro la meritocrazia: perché l’eccellenza non è una questione di misura, ma di esercizio della decisione collettiva sulla ricchezza sociale che autonomamente produciamo.
In questa direzione, il superamento – finalmente definitivo – della forma-partito non significa l’ingenua fiducia nella forma-movimento, e soprattutto mette in guardia dalla sua declinazione debole. Non fosse altro perchè, come traspare dal libro, questo termine assume significati parecchio diversi sul piano transnazionale. In varie parti del mondo, per intenderci, è una categoria più utile alla teoria sociologica che alla pratica politica. Si tratta allora di ripensarlo e riattraversarlo imparando una nuova lingua dell’organizzazione. Una lingua della moltitudine. Risuona qui la domanda, cruciale, che Toni Negri colloca nel cuore della sua prefazione: “sarà trasferibile questa esperienza in una definitiva scelta di vita, in un nuovo radicamento ribelle dell’esistenza?”. Come, in altri termini, l’onda può divenire istituzione del comune, per riprendere quel tema strategico cui allude l’autore? Per rispondere, la scala è gettata anche per forme di movimento che oggi sono inadeguate ai compiti che la nuova composizione moltitudinaria del sapere vivo pone. E la ricerca delle nuove forme di organizzazione, come Raparelli giustamente premette, non può che essere una ricerca collettiva e di parte.
Gigi Roggero
(Articolo tratto da Uniriot Network - www.uniriot.org)
mercoledì 21 ottobre 2009
lunedì 19 ottobre 2009
L'ultimatum dei calabresi che s'arrabbiano
È una mobilitazione che cresce, minuto dopo minuto, centimetro per centimetro.
Scende in piazza sabato 24 otobre ad Amantea, in provincia di Cosenza, la Calabria che non vuole lasciarsi schiacciare dalle tonnellate di scorie tossiche e radioattive scaricate in mare e sottoterra, tra gli
anni ottanta e novanta, da oscuri criminali che avrebbero lavorato al soldo di imprese e Paesi interessati allo smaltimento di rifiuti nucleari.
Appuntamento alle ore 9, nel piazzale Eroi del Mare, sul lungomare Natale De Grazia. Sarà una prima resa dei conti col governo, con la regione e tutti gli enti preposti. Perché da mesi è tornata ad esplodere
la vicenda delle cosiddette “navi a perdere”, ma non è stata ancora fornita alcuna risposta alle domande poste da milioni di persone.
Eppure, quaggiù il numero dei malati di tumore è sei volte più alto del resto d’Italia, la vendita di pesce è calata dell’80 per cento e le previsioni sui flussi turistici per il 2010 sono catastrofiche.
I documenti prodotti dai locali comitati spontanei che stanno sorgendo ovunque, spiegano gli obiettivi della manifestazione del 24. Si chiederà “che venga recuperato ed analizzato al più presto” il relitto contenente “i fusti sommersi a 480 metri di profondità al largo di Cetraro”,
individuato qualche settimana fa da un robot sottomarino sulla base delle dichiarazioni di un pentito di mafia che sostiene si tratti della “Motonave Cunski, affondata dalla ‘ndrangheta per conto di bande
assassine e di chissà quali servizi segreti nazionali ed internazionali”. I fusti conterrebbero scorie tossiche e radioattive come quelle che secondo alcune ipotesi investigative sarebbero state
trasportate dalla motonave Jolly Rosso, spiaggiata nei pressi di Amantea nel dicembre 1990. Questi veleni sarebbero stati interrati nella valle del vicino fiume Oliva”. Siccome si conoscono i luoghi dove risultano sepolti i rifiuti, tali siti devono essere “immediatamente bonificati”!
Innumerevoli assemblee e pubblici dibattiti si sono svolti nelle ultime settimane. Tra le iniziative più partecipate, spiccano quelle di San Pietro in Amantea, Aiello Calabro, Amantea, Diamante, Cetraro, Reggio Calabria, Verbicaro, Rende, Cosenza, Acri ed Orsomarso. Comitati come il “Natale De Grazia”, attivo da tanti anni, ribadiscono che tra gli obiettivi del movimento c’è la riapertura dell’inchiesta sulla Jolly Rosso: “che siano perseguiti i responsabili del tentato affondamento” e del seppellimento dei rifiuti, “delle ditte che vi hanno lavorato e di coloro che hanno depistato più volte l’inchiesta”.
Insieme a Legambiente, ai sindacati ed alle associazioni, il “De Grazia” lotta inoltre affinché “venga dichiarato dal governo lo stato d’emergenza in tutto il territorio costiero che va da Maratea ad Amantea
e nei siti contaminati come Crotone e la Sibaritide; che vengano indennizzati tutti i pescatori della costa e i contadini della valle dell’Olivo e tutte quelle categorie che vivono di turismo; che venga
effettuata un’analisi epidemiologica in tutta la costa tirrenica e in tutta la regione”; che si istituisca e sia reso pubblico il registro dei tumori”; che venga aperta un’inchiesta per fare chiarezza sulla morte
sospetta del capitano Natale De Grazia; che riprendano i processi riguardanti i disastri ambientali giacenti nelle varie procure calabresi”; che vengano dati “mezzi e risorse” per il recupero della
nave Yvonne davanti Maratea.
È prevedibile che il corteo del 24 raccolga i movimenti di difesa del territorio, attivi negli ultimi anni dalla Lucania alla Sicilia.
Soprattutto, convergeranno su Amantea quanti si sono battuti contro i progetti di devastazione ambientale portati avanti dal governo centrale, dalla classe politica che amministra il malgoverno locale e dalle multinazionali. Saranno i coordinamenti per la difesa dei beni comuni ad animare le mobilitazioni che è presumibile si svilupperanno con intensità crescente fino all’estate prossima.
La provincia di Cosenza è attraversata da reti che lottano contro la centrale del Mercure, l’elettrodotto Laino-Rizziconi, l’inceneritore di San Lorenzo del Vallo, il termovalorizzatore di Rende e Montalto, la
discarica di Scala Coeli. Inoltre, la recente ipotesi di omicidio colposo, formulata dalla procura di Paola a carico di dieci indagati per i quaranta operai della Marlane di Praia morti di cancro, rende
l’atmosfera ancora più incandescente.
Resta da capire se questo moto di indignazione popolare può sfociare in un movimento forte ed incisivo, qualcosa di simile a quanto accaduto negli anni passati in altre zone d’Italia. È automatico pensare alla Val Di Susa dei movimenti contro l’Alta velocità ed alla Basilicata della rivolta di Scanzano contro le scori nucleari.
Ed affiora con chiarezza l’importanza del lavoro d’inchiesta svolto da ambientalisti come Francesco Cirillo che per anni ha bussato alle porte del tribunale di Paola, o l’avvocato Rodolfo Ambrosio di Legambiente, che rimbalza da un tribunale all’altro per costituirsi parte civile in estenuanti processi. Senza l’attenzione di questi instancabili “rompiscatole”, molti casi, tanti procedimenti giudiziari, si sarebbero eclissati nella scarsa memoria che cancella identità e prospettive di questa regione.
Si spegnerà la rabbia diffusa che si sta propagando nelle contrade della provincia brettia e sulle due coste? È un sentimento crescente anche nel resto della regione. Può essere frenato soltanto dai persistenti vincoli feudali che legano masse di calabresi al destino di antiche famiglie
della politica e della malavita. Sono i clan di sempre, quelli che dominano partiti ed enti. Sono i veri responsabili dello stupro delle Calabrie. Soltanto una partecipazione sociale genuina ed arrabbiata può
metterne in discussione il potere plurisecolare.
Per esempio, due settimane fa 10mila persone hanno riempito le strade di Crotone, in difesa della terra, dell’aria e dell’acqua.
Sono uomini, donne, vecchi e bambini che da anni vivono in abitazioni e scuole costruite con materiali tossici provenienti dalla Pertusola, una fabbrica chiusa da anni, e mai bonificata. Gli
stessi materiali sono stati sotterrati dalle ecomafie sotto agrumeti e pescheti nella piana di Sibari, ma della bonifica non si parla più, nonostante siano stati stanziati milioni di euro e assegnati i
lavori.
Dunque, almeno per il momento, la rabbia popolare c’è, ma rimane in profondità. S’immerge silenziosa negli anfratti della rassegnata compostezza che quaggiù le popolazioni hanno maturato durante secoli di
calamità naturali e sociali. Ma come acqua di fiumara può riemergere minacciosa, imprevedibile, risolutiva, e cambiare il volto di questa regione. La paura di morire di fame e di cancro rappresenta più che una semplice motivazione per arrabbiarsi. È un’occasione unica per mettere in fuga i politicanti, sfiduciare la ‘ndrangheta, educare i più giovani ad un diverso rapporto con la nostra terra.
Ma per vincere, ci vorrebbe un ultimatum al governo ed a chi può intervenire. Entro una data unanimemente condivisa, questi signori dovrebbero scrivere una parola di verità, ripulire la regione dai veleni tossici e radioattivi. In caso contrario, l’auspicio è che tutta la Calabria si blocchi. Che nessuno passi più da questa terra, almeno fino a quando non restituiranno la salute e la dignità a chi la abita. Come al tempo dei briganti!
Claudio Dionesalvi
Articolo pubblicato da CARTA – settimanale – 16/22 ottobre 2009 – n° 36
venerdì 2 ottobre 2009
Il paradosso della realtà: l'Ultima Lacrima di Stefano Benni
Un vortice di luci ed ombre quello che si sussegue leggendo il libro di Stefano Benni L’Ultima Lacrima, un omaggio a tutti quegli aspetti, quelle stravaganze della vita, che paradossalmente nel tempo diventano la normalità. Già il titolo del libro è una promessa, quest’ultima lacrima ricorda, infatti, quella disegnata sui visi dei Clown del circo: loro nati per far ridere affrontano la durezza di una vita da girovaghi, spesso, incompresi e derisi. L’ultima lacrima è quella che avvolge e altera la malinconia della piazza dopo una giornata di mercato in una dimensione che l’Italia, così chiassosa e popolana, va dimenticando. Leggere Benni fa tornare in mente la tecnica descrittiva e la sagacia di Gianni Rodari: piccole storie, racconti dolci o amari come ‘Favole al Telefono’ e, poi, senza preavviso l’aprosdoketon che cambia tutte le carte in gioco e fa rimanere di stucco il lettore. Nel libro in questione, riedito dalla Feltrinelli nel 2009, ci sono due tipi di racconto: quello che costruisce una realtà normale in un contesto paradossale e l’altro tipo che descrive una storia stravagante per un mondo normale. La democrazia si trasforma nella semplice libertà di ‘cambiare canale’ in tv mentre viene trasmessa l’esecuzione capitale di un condannato, così come una libreria fatata diviene una prigione per il disilluso e realista libraio che non sa ascoltare la voce segreta dei libri. Ma cosa è alla fine la normalità? La società attuale con il suo aggrovigliarsi di eventi altro non sembra che la griglia di un confuso cruciverba troppo difficile per rendersi intellegibile, e proprio questi nodi Benni cerca di sciogliere evidenziando prima il bene ed il male, divisi come nelle più classiche delle favole e poi rimescolandoli con un inatteso ribaltamento dei ruoli. Mentre i racconti di Rodari ricordano un mondo genuino regalandoci sorrisi, il realismo di Benni fa talmente riflettere da assordare, confondere e stupire: i suoi racconti sono di una realtà così vera da diventare crudele. Le certezze si perdono e i sogni diventano incubi, eppure la sua non è una scrittura metafisica, è lo spiegamento di piccole storie, la descrizione di alcuni fermo-immagine particolari e colorati, vividi.
L’Ultima Lacrima fa sovvenire una divisione razionale e assoluta del bene e del male, così come esiste nel Visconte dimezzato di Italo Calvino: un racconto nato per divertire, ma che finisce per raccontare quel modo di vivere di tanti per i quali non esistono le mezze misure. Il bianco od il nero, il fash ed il black-out, che comportano uno shock per l’alternarsi improvviso. Il dimezzato rimpatria dalla guerra, ma è solo la sua parte oscura a tornare ai suoi cari! Mentre il Signorotto se ne va per il suo regno facendo il bello o il cattivo tempo, a seconda di quale delle parti si incontri, la lacrima di Benni continua a scendere e a dividere il bene ed il male, mescolandoli talvolta, ma mai confondendoli.
L’Ultima lacrima è un libro per chi volesse mettersi in gioco e riscoprire i paradossi dell’Italia di ieri e di oggi confrontandole e giocando un po’ con le proprie esperienze, probabilmente alla fine ci si scoprirà fragili e davvero un’ultima lacrima scenderà prima che il sipario si chiuda.
Bruna Larosa
L’Ultima Lacrima fa sovvenire una divisione razionale e assoluta del bene e del male, così come esiste nel Visconte dimezzato di Italo Calvino: un racconto nato per divertire, ma che finisce per raccontare quel modo di vivere di tanti per i quali non esistono le mezze misure. Il bianco od il nero, il fash ed il black-out, che comportano uno shock per l’alternarsi improvviso. Il dimezzato rimpatria dalla guerra, ma è solo la sua parte oscura a tornare ai suoi cari! Mentre il Signorotto se ne va per il suo regno facendo il bello o il cattivo tempo, a seconda di quale delle parti si incontri, la lacrima di Benni continua a scendere e a dividere il bene ed il male, mescolandoli talvolta, ma mai confondendoli.
L’Ultima lacrima è un libro per chi volesse mettersi in gioco e riscoprire i paradossi dell’Italia di ieri e di oggi confrontandole e giocando un po’ con le proprie esperienze, probabilmente alla fine ci si scoprirà fragili e davvero un’ultima lacrima scenderà prima che il sipario si chiuda.
Bruna Larosa
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