giovedì 26 aprile 2012

Unical 2020: il resoconto dell'incontro di aprile


Anche ad aprile il gruppo di docenti, presidi di facoltà e presidenti di corsi di laurea, costituitisi idealmente nel gruppo di lavoro dal nome futuristico “Unical Duemilaventi”, si è riunito per discutere di metodi, problematiche e punti oscuri del nuovo statuto dell’Unical, di recente approvazione. Presenti al tavolo dei relatori, nella sala stampa dell’Aula Magna il 19 aprile scorso, Raffaele Perrelli, Antonello Costabile e Annamaria Vitale, con degli interventi in risposta alla relazione introduttiva di Pierluigi Veltri. Le questioni sollevate non si distaccavano particolarmente da quelle già note all’interesse dei presenti (e non solo al loro), e cioè il numero dei dipartimenti, i membri del Cda e quelli del Senato Accademico. In particolare, stavolta, la discussione si incentrava sul problema della didattica, punto a quanto pare assente dalle regole del nuovo statuto. Quello che non è chiaro è come i nuovi quattordici dipartimenti dovrebbero riuscire a coniugare le attività di ricerca con quelle della didattica, e in base a quali criteri un dipartimento dovrebbe raccogliere al suo interno i diversi corsi di laurea. Il problema maggiore riguarderebbe naturalmente quei corsi di laurea nati per vocazione “inter/multi disciplinari”. Sotto quale dipartimento dovrebbero andare? Non si correrebbe il rischio di avere macro dipartimenti e micro dipartimenti, dove ogni docente tenderà all’autoreferenzialità, senza valutare la possibilità di prestare il proprio servizio anche al di fuori del proprio dipartimento? Queste alcune delle domande poste dai relatori, che trovano risposta in una proposta così sintetizzata da Veltri nella sua relazione: «Si fa sempre più urgente la necessità di accordi quinquennali fra docenti (e ricercatori) di diversi dipartimenti, che vanno a garantire la loro disponibilità all’insegnamento in dipartimenti diversi dal proprio». Altra questione messa in luce, stavolta, da Raffaele Perrelli è quella relativa al rischio di veder costituita la “Federazione delle università calabresi”: «Un rischio da evitare a tutti i costi, pena avere a capo delle decisioni accademiche una figura esclusivamente politica, come l’assessorato alla cultura regionale di turno. È anche per questo che mi vedo contrarissimo alla decisione di togliere potere ai decani. Non dobbiamo dimenticare che non siamo un pugno di burocrati alle prese con le incongruenze di una pratica, ma una comunità di intellettuali». Per Costabile «bisogna ritrovare uno spirito di aggregazione fra docenti e abbandonare la deriva individualistica», considerazione di certo condivisibile, ma che poco risponde al concreto problema della didattica nel nuovo statuto. Annamaria Vitale interviene sostanzialmente per manifestare il proprio spaesamento di fronte alla futura collocazione del Corso di laurea di cui è presidente, ovvero DES (Discipline economiche e sociali), un corso che per materie a ambiti disciplinari si fonda e diverse classi di laurea. Alla luce degli interventi sopracitati, e di quelli avvenuti dopo sull’onda del dibattito, emerge la richiesta perentoria di rivedere il Regolamento didattico di ateneo entro la fine del mese, aggiornato in tutti i suoi aspetti e che tenga conto delle questioni sollevate. 

mercoledì 25 aprile 2012

"U Tingiutu" al Morelli. La recensione di Manolo Muoio


U’ Tingiutu. Un Aiace di Calabria
compagnia Scena Verticale
visto al Teatro Morelli di Cosenza, il 20 aprile 2012.

Il morto che cammina, fuori dal «gregge politico».
di Manolo Muoio*

Racconta Platone nel Politico che ci fu un tempo in cui era la divinità stessa a presiedere, con provvida attenzione, alla vita del cosmo, assicurandone il movimento rotatorio. I demoni pascolavano i viventi come fanno i pastori con gli animali, badando che ognuno avesse il necessario per vivere.  Così «non vi era nulla di selvaggio: i viventi non si divoravano reciprocamente e non vi erano guerre né contese». La terra produceva spontaneamente i suoi frutti, senza bisogno di essere lavorata, si viveva «perlopiù all’aperto perché le stagioni erano miti (…) su morbidi giacigli fatti di erba che la terra faceva germogliare».
Ma se mai davvero ebbe luogo questa età dell’oro,  certo erano già presenti uomini feroci, assetati di sangue e di potere, nascosti nell’ombra ma pronti a venirne fuori per fare razzia dei frutti della terra,  impadronirsene, impacchettarli e istituire un  monopolio. 
Nell’orizzonte della polis (e della legge) uomini sopraffanno e governano altri uomini, secondo i limiti e i vizi che ne contraddistinguono la condizione mortale. Un essere umano – un politico – che regga la vita della comunità, mai potrà eguagliare la sapienza infallibile del pastore celeste. È l’Atene imperiale che si lancia alla conquista del mare e delle isole: la città democratica delle flotte e dei marinai, la polis, che con le sue navi, costruisce in maniera spietata il proprio potere e la propria prosperità, drenando ricchezze e tributi tanto dagli alleati quanto dalle comunità dei vinti. Il capitalismo al suo stadio primario, il germe della mafia che si insinua nel mito fondante della città-stato
Ma esiste una possibilità ulteriore e non meno spaventosa: il dissidio e la contesa che abitano il politico umano possono prendere forma nella strage di un gregge sulla riva del mare, là dove le navi sono ancorate e i marinai-guerrieri trovano riposo dalle loro scorribande al caldo delle tende e dei fuochi notturni. La gang, la famiglia, il gruppo, questa cellula base dello sfruttamento originario, non sono immuni dal cancro con cui contaminano e corrodono l’armonia della vita in comune.
Nella tragedia sofoclea, Aiace massacra solo pecore e buoi, ma quello che accade agli animali innocenti è tuttavia  indicatore, e rivelatore, di ciò che sarebbe potuto comunque accadere al «gregge» politico e ai suoi sconsiderati pastori. 
E per questo che egli diventa «nu muartu ca camina», nu Tingiutu, nell’apprezzatissima messa in scena omonima ad opera di Dario De Luca, ospitata al Teatro Morelli, nell’ambito del progetto MORE, lo scorso 20 aprile.  Attraverso un’accorta traduzione linguistica, liberamente ispirata alla nota tragedia classica, in un calabrese moderno che fa riecheggiare di una vibrazione sinistra la sua matrice arcaica e primordiale, l’autore, regista e attore cosentino ci offre un’affascinante chiave di lettura dell’antico tema eroico.
La scena si apre in un’agenzia di pompe funebri, dove i picareschi addetti alla composizione dei cadaveri, che scopriremo alle prese con la preparazione del corpo di Aiace, danno vita a un delizioso prologo di grottesca ferocia: è già chiaro come anche ai ranghi più bassi della scala sociale, l’introiezione passiva della cultura paramafiosa sia estrema, assoluta. Pochi tratti per svelare le vacue gerarchie, lo spregio della vita umana, la sottomissione resa come prezzo dell’appartenenza, l’immaginario intriso di tradizione avariata e putrido machismo. Il tutto agito con un tocco di ironica leggerezza che ce li rende subdolamente vicini, forse addirittura simpatici, proiettandoci inesorabilmente nel meccanismo millenario dell’identificazione. Sei tu? Sono io? Siamo noi…
Facciamo appena in tempo a nasconderci, come dei complici che certo non apriranno bocca, dietro la quarta parete di tapparelle alla veneziana - fatta scivolare silenziosamente dall’alto da uno degli attori - che alcuni colpi di revolver esplodono in sequenza, scuotendo l’aria e lo spazio della platea e trascinandoci in una vera e propria discesa agli inferi, che prende le forme di un lungo flash-back  / fast-forward.
Aiace ha rapito Ulisse, infuriato per le decisioni che lo escludono dal potere nella gang, dovrà vedersela con il potente clan degli Atridi, che ormai detiene il monopolio indiscusso della violenza. Rimarrà solo, preda dei suoi fantasmi, in un delirio alimentato dal rancore, dal risentimento e dal demone della cocaina che gli offusca la mente e lo porterà, in un vortice di perdizione, a togliersi la vita. Il suo cadavere verrà insultato e profanato, il tradimento intollerabile pagato a duro prezzo.
Gli ingredienti dell’originale ci sono tutti: il dissidio e la contesa, qui declinato secondo le bieche dinamiche interne a una banda malavitosa; l’eterna questione dell’onore, di cui devono ammantarsi, pena la decadenza, coloro che aspirano a controllare le leve del potere; l’arcaico peccato della hýbris, la tracotanza dell’eroe che troppo confida nella propria forza, rifiutando il sostegno degli dei; l’onta della profanazione riservata a chi si è macchiato di insubordinazione, di tradimento, a chi ha osato camminare fuori dal gregge. E ancora, la collera e la reazione vendicativa, caratteristiche imprescindibili della soggettività eroica, che sfociano nella follia omicida e nel colpo di scena del suicidio, attraverso lo svelamento commovente del dramma esistenziale di questo Aiace piccolo piccolo, che ha giocato a fare l’eroe (played to be a hero), perdendo miseramente la sua guerra per il potere.
Una terribile epopea di sangue e morte, cui l’impressionante performance – come autore e come interprete - di Dario De Luca (Aiace), e dei suoi notevoli attori Marco Silani (Agamennone), Fabio Pellicori (Ulisse), Ernesto Orrico (Menelao), Rosario Mastrota (Teucro) riescono a restituire nervi e carne, attraverso una messa in scena e una recitazione quasi filmiche, e al tempo stesso di grande suggestione teatrale, con alcune matrici forti, evidenti e dichiarate, nel cinema di genere, che ne esaltano la dimensione meta-narrativa. Ma soprattutto offrendoci, in un inatteso stimolo intellettuale, non già la consapevolezza comune che la tragedia classica tratti temi eterni, che è sempre possibile riattualizzare, secondo le contingenze e le sfumature del tempo presente, quanto la oscura sensazione di come alcune forme contemporanee di degenerazione della vita pubblica, la violenza esercitata da certi gruppi malavitosi, più o meno legittimi, che tutto e tutti vorrebbero ricondurre al grigiore del gregge politico; persino alcuni riflessi condizionati, piccoli gesti, apparentemente innocui, a cui tutti noi spesso non evitiamo di indulgere, nella nostra quotidianità, siano l’emblema più sinistro del legame profondo e viscerale che ancora oggi ci lega a quella tanto esaltata cultura classica, di quanto affondino le radici in quell’humus magno greco che forse di altro non era fatto se non di guerre e  contese, sopraffazione e stragi, lotte fratricide e tradimenti disperati in cui l’uomo era lupo all’uomo. 
La vecchia eterna tragedia del vivere insieme insomma, con buona pace del mito delle letteratura e delle belle arti.

*Psiconauta

lunedì 16 aprile 2012

Spettacoli che non si faranno, al DAM il libro di Orrico


Mercoledì 18 aprile l'Associazione culturale Entropia e la Casa editrice Coessenza presentano il libro di Ernesto Orrico dal titolo "Appunti per spettacoli che non si faranno" (Ed. Coessenza 2012) presso il DAM (ed. Polifunzionale) dell'Università della Calabria.


Come scrive nella prefazione al volume Alessandro Chidichimo: “Ernesto Orrico ha raccolto alcuni testi che ha scritto negli anni e ha deciso di pubblicarli. Se pare sensato mostrare un punto di vista con cui guardare a questi testi, allora in mia opinione, quello con cui avete a che fare, tenendo tra le mani questo testo, sono tre tipi di oggetti: una raccolta di marginalia; delle note d’attore; dei frammenti che annusano la poesia.”


Il volume, che oltre agli scritti di Orrico, contiene le splendide illustrazioni al testo curate dall’artista Raffaele Cimino, verrà presentato al pubblico mercoledì alle ore 17:00, secondo una modalità performativa, infatti nello Spazio Teatro del Dam si incontreranno Ernesto Orrico (autore, regista, attore), Manolo Muoio (performer), Claudio Dionesalvi (casa ed. Coessenza), per dare vita  a un dibattito fatto di letture, suoni e visioni che ci trasporteranno direttamente fra le pagine vive di questa ulteriore “prova d’autore” di Orrico.

Sciopero autobus: studenti sotto la pioggia

Hanno avuto una sgradita sorpresina gli studenti e i lavoratori che stamattina si erano recati come d'abitudine alla stazione delle Autolinee di Cosenza per prendere l'autobus che li avrebbe portati all'Unical. Oltre al diluvio universale e alle pozzanghere minacciose sotto le ruote delle auto impazzite, ci si è messo anche lo sciopero dei dipendenti delle aziende di trasporti regionali, in agitazione a seguito della decisione della Regione di tagliare 3 milioni di Km di corse con la delibera n. 147 dello scorso 30 marzo.  È incentrata essenzialmente sui tagli al trasporto pubblico locale, che a quanto pare penalizzerebbe soprattutto la provincia bruzia. Il territorio cosentino, infatti, rischia di perdere, in termini di risorse disponibili per il servizio su gomma, diversi milioni di euro, pronti a ripercuotersi sul personale dipendente delle ditte private. Molti lavoratori, infatti, tra autisti e controllori, sarebbero già in odore di licenziamento. Si parla addirittura di 150 esuberi. Dei 4,5 milioni di chilometri eliminati in tutta la Calabria, tre riguarderebbero proprio la provincia di Cosenza. Da qui la “paccata” di euro in meno di finanziamenti, destinata – dicono gli addetti ai lavori – a riversarsi sul personale dipendente. Se l’ipotesi licenziamento dovesse concretizzarsi, sarebbe un altro boccone amaro da mandare giù per un territorio già fortemente penalizzato. E a farne le spese non saranno soltanto i lavoratori. I disagi si riverseranno anche sulle migliaia di persone che ogni giorno si affidano al trasporto pubblico per recarsi sul posto di lavoro, oppure nei luoghi di studio, come le università. Una beffa non da poco, se si pensa che su circa trentamila studenti che frequentano il campus di Arcavacata, il 60% è costituito da fuori sede della Provincia di Cosenza (dati indagine Ecostat - 2003, n.d.r.) e che il 30% circa è costituito o da pendolari veri e propri (chi si muove da fuori città), o dai cosiddetti "pendolari a corto raggio" (chi si sposta da Cosenza o Rende usando comunque mezzi pubblici). La qualità dei servizi di trasporto lascia a desiderare già a pieno regime e con tutto il personale assunto: le corse sono ogni ora, i mezzi sono pochi e spesso malridotti, le aziende negli anni hanno aumentato il costo dei biglietti sfiorando il raddoppio (da 70 cent nel 2007, a 1,20 euro oggi). Ci domandiamo come diventerà la situazione all'attuazione della delibera regionale. Nella migliore delle ipotesi, sarà un disastro.